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05/11/2014

economia

La reazione dei mercati e' eccessiva, meglio prepararsi a un rialzo

Chaney (AXA IM): E’ nell’interesse degli Stati Uniti che l’euro si indebolisca, ora che la ripresa dell’economia americana si sta consolidando. Poco probabile un QE4

Il crollo del rendimento dei Bund decennali sotto l’1% in agosto è stato una notizia scioccante. Dopo di che la mossa del mercato è stata entro certi limiti convalidata da una serie di notizie negative provenienti dall’Area Euro. Tra queste il crollo della produzione industriale dell’1,8% in agosto, causato dalla Germania, e il clima di sfiducia molto pronunciato delle imprese, misurato dal nostro indicatore Surprise Gap, già in territorio negativo, che ha segnato un’ulteriore flessione. Oggi il rendimento dei Treasury decennali è sceso per qualche tempo sotto il 2%, per poi registrare un leggero recupero. Come dimostrerò, l’unica cosa che potrebbe giustificare questo calo sarebbe un’altra tornata di Quantitative Easing, un QE4. Facendo due calcoli, se simuliamo l’impatto di una politica ultra-accomodante della Fed (nessun aumento dei tassi fino a fine 2016, poi un incremento molto graduale del tasso sui Fed funds per arrivare al 3% entro il 2020, seguito da una fase di stabilità), oggi i rendimenti obbligazionari dovrebbero essere almeno al 2%, in modo tale che gli investitori disposti ad assumere il rischio di duration non siano penalizzati.

Tassi così ridotti sarebbero giustificati solo da un QE4 (che porterebbe il prezzo delle obbligazioni a lunga scadenza oltre il loro fair value). E l’unica cosa che potrebbe giustificare un QE4 sarebbe un’elevata probabilità di contrazione dell’economia reale e/o una flessione dell’inflazione core (che esclude alimentari ed energetici). Colpiti da quanto appena accaduto nell’area euro, dovremmo forse aspettarci che, tra qualche settimana, i dati provenienti dall’economia americana forniscano una giustificazione per la mossa del mercato? Io e i miei colleghi David Page, il nostro economista specializzato negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e Chris Iggo, CIO di AXA IM fixed income (e già Chief US economist in una vita precedente), siamo convinti che la risposta sia “No”.

 

La probabilità di una recessione negli Stati Uniti è infinitesimale

 

Innanzitutto alcuni indicatori economici ad alta frequenza segnalano un’ulteriore espansione dell’economia americana al ritmo del 2,5%- 3,0%, per restare prudenti.

In ottobre è probabile un ulteriore indebolimento dell’indice ISM, che costituisce un indicatore coincidente affidabile. Tuttavia, partendo da un livello di 56,6, c’è ancora un ampio margine prima che arrivi a indicare un rischio rilevante di recessione. Da un’analisi più lungimirante, basata sul Surprise Gap (SG), si evince la possibilità che, per ottobre, in caso di forte rallentamento della produzione, il nostro indicatore basato sull’indice ISM possa scivolare in territorio neutrale (ossia a zero o con segno leggermente negativo). Se così fosse, non sarebbe in contrasto con l’ipotesi di un tasso di crescita economica stabile nei prossimi mesi rispetto al passato recente (la crescita media del Pil negli ultimi quattro mesi è stata del 2,6%). In secondo luogo, i fondamentali dell’economia USA tendono a un costante miglioramento, sia dal punto di vista dei consumi (il rapporto tra debito e reddito è tornato ai livelli di fine 2002) che da quello delle imprese (aumento della redditività) e persino in ambito pubblico (rapido abbassamento del deficit federale). È vero, il mercato del lavoro dà ancora segni di debolezza, nonostante la riduzione del tasso di disoccupazione (al 5,9% in settembre), il mercato immobiliare non è stato brillante negli ultimi trimestri, mentre il rafforzamento del Dollaro, seppure positivo in termini di potere d’acquisto dei consumatori, potrebbe indebolire il ciclo degli investimenti.


Eppure, nel complesso, nessun singolo indicatore segnala un rischio imminente di recessione.

In sintesi, sembra assai improbabile che la Fed possa essere indotta a fare un passo indietro rispetto all’impegno di porre fine al QE il mese prossimo a causa delle notizie provenienti dall’economia reale. E che cosa si può dire riguardo al rischio di bassa inflazione?

 

È davvero ipotizzabile un QE4?

 

Il Governatore della Fed di San Francisco John C. Williams è stato citato da Reuters: “Se le prospettive dovessero cambiare in modo “significativo”, con scarsi segnali di un ritorno dell’inflazione al target della banca centrale del 2% ha affermato che sarebbe persino disposto a un’altra tornata di acquisti di titoli” (citazione che parafrasa Williams). I mercati potrebbero scontare l’elevata probabilità di un QE4 a causa di un forte rischio di rallentamento dell’inflazione. Ci sembra però una reazione eccessiva. Innanzitutto, negli ultimi mesi l’inflazione sottostante, misurata dall’indice Core CPI, è stata volatile ma non ha evidenziato una visibile tendenza al ribasso.


Se si normalizzano le variazioni mensili dell’indice utilizzando un filtro statistico, si rileva come la core inflation, dalla metà del 2012, sia sempre rimasta intorno all’1,9%. In secondo luogo, se è molto probabile che in futuro l’apprezzamento del Dollaro e il calo dei prezzi dell’energia influiranno sulla core inflation, allo stesso tempo è probabile che i canoni di locazione (inclusi i canoni attribuibili ai proprietari di case) continuino a seguire i prezzi immobiliari (l’indice Cape-Shiller, relativo alle 20 città più rappresentative degli Stati Uniti, in agosto ha guadagnato il 6,7% su 12 mesi) mentre, per i salari, l’ipotesi di un’accelerazione è più probabile di quella di un rallentamento. In conclusione, non ci sono segnali di un rischio di rallentamento dell’inflazione. Nel complesso, le probabilità di un quarto ciclo di Quantitative Easing appaiono molto basse. Ho chiesto a David Page quali siano a suo avviso le probabilità di un altro programma di acquisti di titoli e la sua risposta è stata “10-15%”. Personalmente starei su una percentuale ancora più bassa ma, anche con una probabilità del 15%, è molto difficile giustificare dei rendimenti a 10 anni del 2%.


 

La teoria del complotto

 

Ci resta così una sola ipotesi, che si innesta nella trama del complotto: dato che, seppure con tante difficoltà, la BCE sta avviando una sua politica di Quantitative Easing e mentre la Banca del Giappone si sta felicemente accaparrando tutte le emissioni nette di JGB, la Fed potrebbe paventare la minaccia di un QE4 per impedire un ulteriore rafforzamento del Dollaro. Personalmente non concordo con questa teoria. Le prime tre tornate di Quantitative Easing hanno indebolito il Dollaro, facilitando la ripresa dell’economia americana tanto più che, allo stesso tempo, il bilancio della BCE registrava una contrazione. Eppure, i portavoce del Tesoro USA (da cui dipende la politica dei tassi di cambio) hanno ripetutamente invocato una politica monetaria più proattiva in Europa, vale a dire una politica di tipo quantitativo. Ora che l’Euro si sta indebolendo per effetto della decisione della BCE, sarebbe incoerente reagire aumentando così il rischio sistemico proveniente dall’Europa. In altri termini, è nell’interesse degli Stati Uniti che l’Euro si indebolisca, ora che la ripresa dell’economia americana si sta consolidando.


Questo perché un Euro più debole costituisce una delle rare leve macroeconomiche capaci di tirare l’Area Euro fuori dal pantano in cui è sprofondata e che, a ragione, è considerato una minaccia per l’economia degli Stati Uniti. Abbiamo abbassato il nostro target di fine anno per il rendimento dei Treasury al 2,4%. Non c’è motivo di abbassarlo ulteriormente: la reazione del mercato è eccessiva ed è inevitabile che ci sarà una correzione.

 

Eric Chaney, Head of Research AXA IM

 


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