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11/11/2015

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Vismara: le nostre aziende nel Food and Beverage sono le migliori al mondo e tutti le vogliono

L'Italia ormai dall'inizio del 2014 è ritornata nel mirino dei grandi player internazionali industriali e finanziari. Le nostre eccellenze fanno sempre più gola. Ma c'è anche chi fa shopping all'estero

Differenziarsi sui mercati dalla concorrenza, surclassando tutti per qualità, è sempre stata la caratteristica dei produttori del comparto alimentare italiano. Una eccellenza riconosciuta da tutto il mondo ma che fatica a penetrare nelle grandi catene retail internazionali che invece ricercano la standardizzazione. Per questo, e per altri motivi, le nostre aziende sono più spesso prede che non predatori. Ma potrebbero crescere, se lo volessero. Ne abbiamo parlato con Marco A. Vismara, Partner di Arietti & Partners e Head of Food & Beverage in M&A International.

L'Italia per il F&B è nota in tutto il mondo. Come viene vista dall'estero a livello di Merger & Acquisitions (M&A)? Abbiamo qualche peculiarità che ci rende così interessanti?

Sicuramente siamo ben visti, non potrebbe essere diversamente. Le nostre aziende, sia grandi sia di nicchia, riescono a sviluppare ottimi prodotti, di qualità superiore alla stragrande maggioranza dei produttori stranieri.
Le nostre risorse naturali e le materie prime sono una componente fondamentale per fare prodotti migliori, ma non è solo quello: siamo bravissimi nel dosare i gusti, nell'affinare i processi produttivi, nello sviluppare packaging innovativi, nel mantenere genuinità e freschezza anche nei prodotti industriali.


Quello che spesso ci manca, invece, anche quando riusciamo a creare dei brand davvero forti sul suolo domestico, è la capacità di andare a venderli all'estero con convinzione, e soprattutto la capacità di "ottimizzare e standardizzare" i prodotti, i processi e i layout nelle catene retail che tanto fanno nel mondo per affermare il successo del Food & Beverage e i nuovi modelli di consumo: è noto a tutti che Starbucks e Pizza Hut sono arrivati molto prima di noi su due tipologie di prodotti tipicamente italianissimi come il caffè espresso e la pizza.
In un certo senso mi viene da dire che la nostra forza è la nostra principale debolezza: all'imprenditore italiano piace rendere esclusivo il suo prodotto, piace dargli un tocco di personalizzazione e di novità ogni volta che lo crea, perché anche ai consumatori italiani piace l'idea di scegliere all'interno di una gamma ampia un prodotto "speciale", fatto con cura. Questo approccio, che permette a ogni nostro produttore di differenziarsi continuamente dalla massa, evidentemente va a confliggere con la ricerca della standardizzazione della qualità, che invece per le catene retail è fondamentale.


Per fare un esempio, nel 2002 un imprenditore inglese mi spiegò che per posizionare la loro catena di bar nel Regno Unito come la migliore nel caffè espresso all'italiana, avevano cronometrato esattamente i secondi che ci volevano perché dalla macchina espresso (italiana ovviamente) uscisse il miglior caffè e avevano impostato tutte le loro macchine o formato i loro dipendenti in modo che quei tempi fossero rispettati in ogni punto vendita: un tempo più corto o più lungo non consentiva di massimizzare la qualità del caffè servito e soprattutto generava una differenza di percezione della qualità e quindi del brand in punti di vendita diversi della stessa catena… Si è mai sentito qualcuno parlare di una cosa del genere in Italia?
Un altro problema perdurante è la mancanza di manager professionali e di cultura internazionale nelle aziende familiari, che ne limita fortemente la capacità di aggredire i mercati esteri, in particolare tramite operazioni di acquisizioni cross-border, che hanno bisogno di molta attenzione nella fase della post-merger integration per garantire il successo dell'operazione.



Per non parlare del "provincialismo" di molti imprenditori nostrani, che piuttosto che condividere una fetta piccola di una torta più grande - magari unendosi al concorrente con cui si sono combattuti per una vita o facendo entrare un Private Equity a supporto della loro crescita internazionale - preferiscono continuare a comandare da soli nel loro piccolissimo orticello domestico.
Per tutti questi motivi siamo sempre più spesso prede che non predatori.
Anche guardando ai mandati su cui abbiamo lavorato recentemente, o stiamo ancora lavorando, moltissimi stranieri guardano all'Italia. Molti meno italiani (anche quelli più grandi e noti) sono davvero pronti e strutturati con le giuste competenze per andare a comprare all'estero.

Quali sono le tipologie e le categorie delle aziende più richieste?

Guardando agli ultimi tre anni, sicuramente i settori più comprati dall'estero per numero di deals sono stati il Bakery (ossia i prodotti da forno) dolce, salato e surgelato (ad esempio sono state cedute Balconi, Eurocakes, Irca, LAG-Lanterna Agritech); il cioccolato e la pasticceria (Amedei, Pernigotti, Cova); i gelati/dessert (recentissima Grom, ma anche Optima-Mec 3, Rachelli); il Dairy e cioè i latticini e derivati (Nuova Castelli, Trentinalatte).


In termini di dimensione delle operazioni non si possono dimenticare Inalca (carni) e Salov (olio).
Voglio però sottolineare che molte di queste acquisizioni sono state fatte da fondi internazionali di Private Equity, che io considero un passaggio più che naturale se una media società italiana vuole davvero internazionalizzarsi: nella stragrande maggioranza dei casi la mente decisionale e la sede produttiva rimane in Italia, e il fondo di PE fornisce accesso a nuovi mercati (tramite network, relazioni, esperti) e soprattutto capitali per aprire nuove sedi o effettuare ulteriori acquisizioni a livello mondiale.
Sulla base dei nostri recenti mandati, vediamo un crescente interesse sul mondo del biologico, che ha multipli molto interessanti a livello internazionale: abbiamo aiutato la società olandese quotata Wessanen a comprare Abafoods a fine 2014, e il nostro cliente continua a manifestare un forte interesse sul biologico italiano. Stiamo lavorando con i colleghi del network anche nei biscotti e negli snack.
Quanto alle dimensioni delle società acquisite, queste variano da un milione di fatturato fino a oltre il miliardo di euro, ma lo "sweet spot" è sicuramente tra i 30 e i 300 milioni di euro.




L'Italia non solo come Paese di conquista. Quali sono i comparti in cui le nostre aziende fanno o vorrebbero fare shopping all'estero?

Sugli ultimi 3 anni i settori più attivi sono stati il Dairy con Granarolo e Parmalat (che considero ancora italiana, nonostante l'azionista francese) particolarmente attive in tre continenti diversi (Francia, Brasile, Cile e Australia); il Wine & Spirits, dove, oltre alla "solita", fortissima Campari (che ha spaziato tra Giamaica, Australia e Canada), si sono distinte anche Ilva Saronno, Cavit e Molinari con acquisizioni in Europa (Molinari ha però comprato una società di acqua minerale); e infine le conserve con Bolton e Star, anche se la seconda è di casa madre spagnola. Bolton invece è un ottimo esempio di un gruppo ormai multinazionale, ma con trazione fortemente italiana. Altri deal più sporadici nel caffè con Massimo Zanetti Beverage Group a Singapore (ma è molto attivo, ne farà altri sicuramente) e nella pasta con Colussi in Romania.
Si sta sviluppando anche un trend in cui gli italiani non effettuano acquisizioni all'estero, ma "re-italianizzano" brand e prodotti italiani in mano a colossi stranieri.


E' notizia di questi giorni che come Arietti & Partners abbiamo assistito Heinz nel cedere all'italiana Newlat il proprio stabilimento di Ozzano Taro (Parma) in cui si producono prevalentemente prodotti per bambini a marchio Plasmon. Identica come schema è stata la vendita del marchio e dello stabilimento dell'acqua minerale S.Bernardo che abbiamo seguito per conto di Nestlé - San Pellegrino: a comprare è stato il Gruppo Montecristo (attivo nelle acque minerali e nelle bibite), di proprietà delle famiglie Biella, Verga e Colombo (a suo tempo proprietari della Spumador).
Quanto al futuro, posso ricordare che recentemente Barilla ha parlato di possibili acquisizioni negli Stati Uniti, e Ferrero, per voce del suo AD Giovanni Ferrero, ha dichiarato che è il momento di pensare alla crescita per M&A ed è pronta ad "andare oltre le colonne d'Ercole". L'OPA sull'inglese Thorntons di questo giugno ne è la dimostrazione e penso sia solo l'inizio.
Credo inoltre che nei prossimi 12-24 mesi cominceranno ad affacciarsi all'estero società di matrice ancora molto domestica come ad esempio Bauli e altre del bakery italiano.




Guardando al futuro, il Made in Italy rischia di parlare per lo più lingue straniere? Come vede l'andamento del mercato M&A per il 2016?

Sono molto positivo sul mercato del M&A in generale, grazie alla ripresa economica ormai in atto, che aumenta l'ottimismo e la propensione a investire di più, e alla disponibilità di finanza a basso costo a supporto delle acquisizioni.
L'Italia ormai dall'inizio del 2014 è ritornata nel mirino dei grandi player internazionali industriali e finanziari, dopo l'evidente caduta di interesse legata alla crisi macroeconomica e alla inaffidabilità politica nel periodo 2009-2013.
Spero che questo valga anche per le imprese italiane, e che possano attivarsi sempre di più per guardare all'estero. Business is business, come si dice, ed io non trovo che la vendita di società e marchi italiani a operatori internazionali sia di per sé un aspetto negativo (ci sono molti esempi che testimoniano il contrario). Ammetto però la mia donchisciottesca e campanilistica inclinazione: sono molto più contento se un imprenditore italiano va a comprare all'estero, e sono convinto che nonostante tutta l'inefficienza, lo spreco e l'ignavia che dobbiamo affrontare e combattere quotidianamente in questo nostro meraviglioso Paese, noi Italiani da millenni sappiamo fare molte cose molto meglio degli altri popoli.


E sul Food & Beverage non potrebbe essere altrimenti: è la nostra specialità ed è alla base della nostra cultura e del nostro approccio alla vita.  


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