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05/04/2017

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Trotta (BarleyArts): la mia battaglia contro il secondary ticketing

E' un problema di equità, a favore dei veri fans e contro gli speculatori. Non voglio che un settore economico sparisca. E metto anche artisti e politici nel mirino  

Grande clamore ha suscitato negli ultimi tempi il problema del secondary ticketing, cioè la disponibilità dei biglietti per i concerti degli artisti più famosi solamente online e a prezzi moltiplicati. Una vera e propria opera di bagarinaggio 2.0 che specula sui fans e che sta creando non pochi disagi a chi opera onestamente nel comparto, ma anche a tutta la filiera della musica live. Ne abbiamo parlato con Claudio Trotta, proprietario e General Manager di Barley Arts Promotion ( www.barleyarts.com ), che si è fatto paladino della battaglia contro il secondary ticketing. E' stata l'occasione per fare il punto della situazione del mercato in Italia e a livello internazionale.

Quali differenze ci sono tra manager, agente e promoter?

Facciamo un distinguo. Nell'immaginario collettivo si usano parole come manager, agente, promoter per indicare comunque chi è vicino agli artisti. In realtà sono tre ruoli ben distinti che in taluni casi, soprattutto in questo Paese, spesso sono svolti dalla stessa società o dalla stessa persona, ma che in realtà all'interno della filiera della musica dal vivo, e non solo, hanno ruoli diversi.


Il manager è colui che è più vicino all'artista, o il cantante che sia, e che ne dovrebbe indirizzare la carriera da un punto di vista generale, tenendo i rapporti con l'agente. Questo si occupa della parte live, sia per un mercato domestico e quindi relativo ad un Paese (europeo, uno stato USA o quant'altro), sia internazionale, con uno sviluppo che riguardi un continente.
L'agente è colui che poi sceglie il promoter, o meglio, lo sceglieva negli anni 60, 70 fino a buona parte degli anni 2000. Questo avveniva secondo una logica territoriale, caratteristiche professionali e generi musicali frequentati dai promoter. Quindi un agente londinese di un artista internazionale (la maggior parte degli agenti sono di Londra, così come le agenzie più importanti al mondo) ne sceglieva uno per la Spagna, uno per l'Italia, uno per la Gran Bretagna ecc. Questo secondo dei rapporti consolidati o non consolidati, a seconda degli interessi palesati dal promoter verso quell'artista; oppure secondo un'idea dell'agente o anche suggerita dal manager, dove si identificava quel promoter idoneo per il proprio artista.

Poi è cambiato tutto, compreso il ruolo del promoter?

Sì.

C'è stato l'ingresso dei contratti a 360°. Prima erano stati tentati dalle case discografiche, che erano davanti a un bivio: chiudere o rigenerarsi. Per provare a rigenerarsi avevano immaginato - a mio parere, del tutto legittimamente - di firmare degli artisti o cantanti nuovi con contratti a 360°. Questo significa che le case discografiche - che in ogni caso peraltro ancora adesso nel mondo sono società che investono sulle carriere di nuovi talenti (che poi lo facciano bene o male è un altro discorso) - oltre ad avere i contratti discografici e quelli editoriali avessero anche quelli riguardanti la parte live, le sponsorizzazioni, i programmi TV e tutti i vari settori di sfruttamento artistico.
Famoso il tentativo con gli U2, che proprio recentemente all'International Live Music Conference di Londra, a mio parere in maniera paradossale, è stato definito "amorale" da parte di Paul McGuinnes, storico manager della band irlandese. Per inciso, quello romano è un appuntamento che c'è da 29 anni ed io sono uno degli 8-9 che è sempre stato presente.
McGuinnes si riferiva immagino agli anni 90 o primi 2000.


Lo stesso manager e gli stessi artisti non hanno però giudicato nello stesso modo fare questo contratto con la più grande multinazionale al mondo, Live Nation, che allo stato dell'arte è "Il" promoter per antonomasia nel mondo.
E' infatti presente in quasi tutti i Paesi e in ogni continente, avendo acquisito moltissimi cervelli, società, asset importanti di tutta la filiera della musica dal vivo. E contemporaneamente controlla attraverso le società di management di proprietà più di 500 artisti, e attraverso la proprietà o la gestione oppure la co-proprietà più di 100 festival, oltre alla gestione e/o la proprietà di strutture dove si svolgono gli spettacoli, database di fans club, società di merchandising. Financo, durante la prima o la seconda amministrazione Obama, è arrivata al completamento di un merger con la più grande società al mondo di vendita di biglietti, TicketMaster. In questo modo sta controllando tutta la filiera.

E da qui come si arriva al secondary ticketing?

Come ho detto quasi scherzando, ma neanche poi tanto, in una intervista con il blog americano Promoter101, manca solamente di acquistare il pubblico! In realtà, il pubblico in qualche maniera lo stanno acquistando, perché comunque sono indiscutibilmente, per adesso parzialmente o anche di più, responsabili dello sviluppo di questo terrificante metodo del secondary ticketing.


Un metodo che oggettivamente controlla ancora di più il pubblico. Perché avere tutta questa batteria di soggetti della filiera è di fatto un reale controllo della stragrande maggioranza del mondo della musica dal vivo, che ormai è molto più importante di quella del prodotto, della musica tout court. Attraverso la proprietà di 5-6 portali da parte di TicketMaster - peraltro in modo ufficiale, in quanto è espressamente indicato sui siti - dove si permette il secondary ticketing, di fatto così controlla ancora di più il pubblico.
Questo perché, come ha detto Alex Brufford, figlio del mitico batterista degli Yes, e agente inglese di notevole successo in UK e in Europa, e intervenuto alla prima conferenza internazionale "La negazione del secondary ticketing" da me organizzata: "se per un biglietto si spendono 250 dollari (ed è stato decisamente "basso" nella stima) invece di 50, è evidente che non se ne possono spendere altri 200 per altri 4 biglietti. In questo modo, altri 4 artisti non hanno pubblico".
Quindi si vede come palesemente il fenomeno del secondary ticketing è assolutamente parte di un sistema.


Un sistema che peraltro le multinazionali praticano in qualsiasi ambito, non c'è nulla di nuovo da questo punto di vista: avere la prevalenza nel mercato e controllare i consumi.
Peccato che questo accada in un'arte che è stata testimone di evoluzioni dei costumi, rivoluzioni culturali, grandi cambiamenti tra uomo e donna, nei diritti civili. Però, oggettivamente, tutte queste cose si sono ridotte ad un enorme business. Quindi è giusto parlarne su Businesscommunity.

Secondary ticketing: quanto impatta sul business degli organizzatori e degli artisti

La stima del suo giro d'affari l'ha data paradossalmente proprio Michael Rapino, il CEO di Live Nation. Nel marzo del 2016, un anno fa e sempre all'International Live Music Conference, come parte di un suo speech, parlando del secondary ticketing ha detto che il giro d'affari nel mondo stimato allora era di 8 miliardi di dollari. Sempre lui ha affermato che era comparabile al giro della cocaina, un paragone abbastanza forte.
Il concetto per cui lo combatto è molto semplice: la crisi economica è mondiale, con Paesi che stanno meglio e altri che stanno peggio.


Ciononostante, i consumi delle fasce più giovanili non diminuiscono, e questo significa che i genitori si sacrificano. Io ho spesso genitori che mi ringraziano per quello che sto facendo, dicendomi che hanno il figlio che li sta massacrando perché vuole a tutti i costi andare a vedere, per esempio, Ariana Grande: il biglietto costava 50 euro, ma dopo 3 minuti non ce ne erano più e da tutte le parti si trovavano a 500 euro.
Se questa non è una schifosa speculazione sulle tasche della gente, che cos'è? Qualcuno me lo deve spiegare. Qui rasentiamo la vergogna vera. Perché un conto è speculare sui fans che diventano fanatici: non è giusto, però io non lo farei mai e non lo faccio, ma alla fine nessuno li obbliga. Un conto è speculare su tutta questa fascia di imbecilli ricchi o arricchiti che pensano che se si fanno un selfie col palco dietro di Sting o dei Coldplay sono fighi. E di questi non mi importa nulla se acquistano biglietti strapagandoli, anche se li tolgono ai veri fans, quelli che si meritano di andare a vedere gli artisti.
Ma quando si specula su genitori che magari portano avanti una famiglia con 1000-1500 euro al mese, e si trovano a dover spendere 500 euro per il concerto di un idiota che ancheggia sul palco, significa che il problema è grosso.


Si tratta di un problema politico, economico e culturale, prima ancora che morale ed etico. Perché è evidente che danneggia l'economia. Non ci vuole molto a capire che se i soldi vengono tutti spesi in un'unica direzione, poi non se ne possono spendere in altre. Tradotto: se si spendono 500 euro per andare ad un concerto, sarà altamente improbabile che ci si possa permettere di andare a un ristorante, di spendere nella benzina per l'auto, per l'autostrada, di acquistare una maglietta e quant'altro. Ragion per cui si nega economia di indotto, e così facendo il nostro business è destinato a implodere. E' destinato a diventare un qualcosa solo per ricchi, privilegiati e idioti.
Io non ho iniziato a fare questo lavoro in proprio nel 1979 pensando a questo e non ho intenzione di cambiare idea. Sono per l'imprenditoria, ma quella vera. Adoro il challenge, così come prendermi dei rischi, ma qui non si tratta più di quello. Si tratta di altro.

Ma gli artisti in tutto questo non possono far nulla?

In realtà sono tra i principali colpevoli di questa situazione.


E' molto semplice: ammettiamo che non sia una situazione in cui l'artista o un suo rappresentante, chiede al promoter di vendere i biglietti anche nel secondary ticketing perché vuole più soldi di quelli prodotti in modo regolare. Ammettiamo che non sia così, e 9 volte su 10 non è squisitamente così. Ma il tema è un altro: se tu sei un artista - soprattutto di quelli internazionali o nazionali al top - e lavori con una società che oggettivamente ti paga più di quello che tu produci (e questo è semplice da capire), e contemporaneamente guardacaso, quella stessa società ha delle altre società in cui si vendono i tuoi biglietti a dei prezzi molto più alti, perché non ti fai delle domande? Fra l'altro un artista, anche un cantante nuovo, è circondato in ogni caso da una serie di persone: avvocati, commercialisti, business manager, personal manager, tour manager, mogli, mariti, fratelli, sorelle, padri, madri ecc. Questi sono sempre pronti a segnalare a questi cantanti/artisti - c'è da ricordare che non tutti vanno chiamati artisti! questi ultimi sono solo una parte, mentre gli altri sono la stragrande maggioranza - una serie di cose. Per esempio, appena reputa che il promoter gli dichiara secondo loro meno biglietti venduti; che c'è un merchandising abusivo; che la casa discografica ha fatto dei report sulle royalty non reali, ecc.


Però guardacaso nessuno di questi soggetti si preoccupa del fatto che il loro pubblico, i loro fans, quelli a cui devono tutto, pagano anche 10-20 volte quello che dovrebbe costare un biglietto? E chi ci crede? Oppure, come mai non glielo segnalano?
Perché bisogna sempre ricordarlo: chi è sul palco deve tutto a chi compra i biglietti. Proprio tutto. Non è il contrario. Sono gli artisti/cantanti che devono al pubblico.
Quindi, come ha detto giustamente Niccolò Fabi in un testo che abbiamo pubblicato nell'incontro a Roma, il fatto di non sapere, è già una colpa. Non è ammissibile che uno che salga sul palco non sappia. E' ora anche di smetterla di coltivare questa mitologia che chi sta sul palco non sappia nulla. Se i prezzi sono alto è "perché sono cattivoni gli organizzatori". Se c'è il secondary ticketing è "perché ci sono loro che vogliono speculare". Non è così. Gli artisti e/o i cantanti controllano dalla A alla Z tutto quello che riguarda la loro attività. Devono saperlo. Non è ammissibile immaginare che Coldplay, U2 o Mark Knopfler non lo sappiano. Tant'è che quest'ultimo è uno che combatte questo fenomeno.


Non si può dire la stessa cosa dei primi due gruppi, che casualmente lavorano con Live Nation mentre Knopfler no. E non lavora neanche con me, quindi non parlo certo di un mio artista.

Usciamo dal comparto musicale: come vede il mercato degli eventi sul territorio in Italia?

Faccio una premessa: i miei ragionamenti sono sempre di carattere europeo perché occuparsi solo dell'Italia è poco interessante, e in più non ha futuro. Io predico per i giovani e per quelli che saranno i futuri giovani di pensare europeo da quando nascono, se no non ne possono venir fuori. Detto questo, il problema principale quando si va ad organizzare qualsiasi tipo di evento è soprattutto di natura politica. La classe politica non è preparata, non è professionale, non è adeguata, ragion per cui i tempi e le modalità dell'entertainment sono molto più rapidi di quelli della politica. Si costruiscono degli eventi dove la politica deve semplicemente dare delle risposte molto semplici e molto pratiche, ma queste arrivano quando questi eventi sono già stati "consumati" e già superati da altri. Per quanto mi riguarda, io ho trasformato Barley Arts da una società che si occupava quasi esclusivamente di musica dal vivo ad una realtà che si occupa di entertainment a 360°, che produce e distribuisce nel mondo mostre di edutatintment (educational-entertainment).


Al momento ne abbiamo due: una dedicata allo spazio a Varsavia in Polonia, e una dedicata al calcio a Mechelen in Belgio. Produciamo e organizziamo, divertendoci molto, dei Food Truck Festival, dedicati a questa meravigliosa orda di folli ristoratori che allestiscono ristoranti di grande qualità ed eccellenza. Nulla a che vedere con gli ambulanti o con lo street food, che sono altro. E poi organizziamo e produciamo family show, tra cui "Walking with Dinosaurs", spettacolo per bambini con dinosauri a dimensione reale, con una produzione da concerto. Lo facciamo a Milano, Torino e Bologna ogni 4-5 anni, con 130mila spettatori per città: sono le uniche strutture che possono ospitarci, viste le dimensioni dei soggetti. La nostra attitudine è quindi improntata alla diversificazione e al guardare sempre avanti. E' vero che l'Italia è un Paese per vecchi, ma non è l'unico. Non è che all'estero sia sempre tutto così bello e meraviglioso: c'è burocrazia e corruzione anche fuori dai nostri confini, così come malversazione e poca professionalità. C'è però grande professionalità in Italia così come all'estero.


Qui non è né peggio né meglio. Se posso dire, qui è meglio perché abbiamo delle risorse naturali, artistiche e storiche quasi incomparabili. Anche se la bellezza è diffusa e non c'è solo da noi.

Quanto contano i social negli eventi?

E' evidente che i social costituiscono una parte molto interessante. Sia per immaginare gli interessi delle fasce di pubblico li vivono, perché i social inizialmente erano più una roba da ragazzini mentre adesso ci sono tutti: sono assolutamente transgenerazionali. Sia per coinvolgere a target il pubblico che il tuo evento, festival o rassegna possa raggiungere. Dall'altra parte non bisogna neanche prendere per oro colato tutto quello che i social ti buttano indietro: il video che ha 20 milioni di visualizzazioni non significa in automatico che ci siano 20 milioni di persone - ma neanche 10, 5 o 1 - che siano interessati ad andare a vedere dal vivo quel cantante. E' un mestiere, anche questo abbastanza complicato. Da sempre, comunque, le scelte sono molto di stomaco e poco di statistica. E' difficile pensare che dei numeri di visualizzazione adesso, come i numeri di vendita dei dischi (quando si vendevano), o dei Like di oggi possano in automatico significare un interesse per mettere mano al portafoglio e partecipare a un concerto, a un festival o a una mostra.


Bisogna saperli interpretare e poi avere anche molta fortuna: ogni tanto si prende il filotto giusto e altre volte no, succede. E' una condizione eterna del concetto di entertainment. E forse è uno dei motivi per cui mi piace il mio lavoro tutt'ora: c'è sempre un margine di imprevedibilità.

Il ruolo del manager: come si differenzia l'approccio di chi ha che fare con rockstar rispetto a chi opera nell'economia o nella finanza

Premesso che il management dovrebbe avere un ruolo cruciale di direzione, di impostazione, di calibro di una impostazione di una carriera, non sempre il management è assolto secondo questi canoni e soprattutto è assolto da persone e società qualificate ad assolverlo. E' abbastanza tradizionale, non solo in Italia ma in qualsiasi Paese, il concetto che spesso e volentieri un manager lo si diventa per caso. Magari perché si è amici di infanzia del cantante, oppure perché si è familiari o lo si diventa, oppure perché si è avvocati o commercialisti e si diventa manager. Oggettivamente non è che ci sia una tradizione di manager che nascono come tali. E' una di quelle attività in cui lo si diventa.


Frequentemente i manager sono ex uffici stampa, ex responsabili della comunicazione. Detto tutto questo, nella maggior parte dei casi è abbastanza ragionevole, e non è offensivo dire, che la maggior parte di queste persone hanno soprattutto una conoscenza di quelle che sono le pubbliche relazioni, dei media, ma non hanno conoscenze di economia, di quello che è la filiera e anche l'etica del lavoro. Alcuni diventano preparati da questo punto di vista, altri se ne disinteressano completamente. Io non posso parlare di manager aziendali, perché non ho mai lavorato per un'azienda e mai lo farò. Ma immagino e credo che in taluni casi ci sia una preparazione superiore nel management aziendale, anche se penso che qualche posizione si prenda o per politica o per altri motivi che non c'entrano niente con la professionalità. I manager nel mondo della musica che hanno una preparazione a 360°, compresa quella economica, non sono molti. Ed Bicknell (storico manager dei Dire Straits), Paul Crockford (Mark Knopfler), John Landau (Bruce Springsteen) e George Travis, sono soggetti che sono preparati, ma comunque non sono certo in tanti.


Poi ci sono i grandi management americani che rappresentano delle centrali di potere enormi, ma quello è un altro discorso. Il management in Italia, a parte Maioli (Ligabue), vede qualche giovane, ma tanti sono veramente lì perché ci sono capitati.

E come imprenditore, quanto è difficile?

La cosa che più mi affatica non è portare la gente ai concerti, ma sicuramente è la politica. Sia intesa a livello internazionale - da quando l'ingresso di Live Nation e altre multinazionali hanno cambiato tutto - per cui per politica si perdono degli artisti, non perché non sei bravo a organizzarli o a pagarli, ma perché per politica questi finiscono nel giro delle multinazionali. Dall'altra parte, sempre la politica, in Italia e anche in altri Paesi, è totalmente incapace di avere visione. Ricordo che in Italia non esiste neanche una struttura per la musica popolare contemporanea pagata con denaro pubblico. E a questo proposito, ben venga il progetto di Luca Vecchi, sindaco di Reggio Emilia, per un'arena da 10 a 100mila persone a Campovolo: sarebbe la prima in assoluto.


Inoltre, non c'è visione nella formazione professionale: le scuole di musica sono molto buone perché sono iniziative private, ma l'iniziativa pubblica è latente. Manca poi un vero sistema informativo: la maggior parte delle radio più che informare fanno da eco ad interessi, spesso delle stesse radio, che sono diventate editrici, promoter e tra un po' diverranno altro ancora. Direi quindi che la politica, in tutti i suoi aspetti, è il problema principale.
Certo, anch'io delle volte butto il mio cuore oltre e promuovo cose o artisti di grandissima qualità che magari non hanno il riscontro che potrebbero avere in altri Paesi. Però è una mia scelta e non mi obbliga certo nessuno. Mi lamento però di quello che manca a monte, non del risultato a valle, che ne è il figlio.


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