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14/02/2018

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Il malcontento e la disaffezione verso la politica

Il viaggio di Schianchi e Franchi per esplorare il diffuso scontento si dipana tra due date simboliche: il 1989 e il 2016

"Questo lavoro è la prosecuzione naturale del libro precedente (A. Schianchi, M. Franchi, Democrazia senza, Diabasis, 2016, ndr) in cui avevamo affrontato la crisi della democrazia a partire dal crollo dei pilastri su cui si è fondata dopo la Seconda Guerra Mondiale: sovranità, eguaglianza, lavoro, fiducia, politica. Avevamo scritto che la democrazia per essere tale ha bisogno di alcune condizioni fondamentali senza le quali si indebolisce e va in crisi. Al contrario, è emerso uno scenario connotato da una serie di mancanze. Le promesse di eguaglianza sono state deluse, le tecnologie hanno messo in evidenza serie minacce al lavoro, il cuore delle promesse inclusive. La sovranità è fragile per effetto della globalizzazione, che poi ha conseguenza la crescita delle diseguaglianze tra i paesi industrializzati e ha dato luogo ad una crescente contrazione dei ceti intermedi. La fiducia degli elettori ha toccato i minimi storici ed è sprofondata nell'astensione. Il crollo della fiducia porta alla crisi della politica, autoreferenziale e, senza fiducia, inutile". Così parlano gli autori di un testo veramente interessante.


Maura Franchi, Docente di Sociologi dei consumi e della comunicazione presso il Dipartimento di economia dell'Università di Parma e componente del Comitato scientifico del Digital adv lab e Augusto Schianchi, Ordinario di Economia politica presso il medesimo dipartimento, sono gli autori del volume "La democrazia del nostro scontento. Dal 1989 al 2016: il mondo tra attese e delusioni", Carocci, 2018. Un'utile guida, a poche settimane dal voto, per capire come e quando è nata la disaffezione verso la politica e quali possono essere le conseguenze nel nostro vivere civile.
"Il quadro che avevamo tratteggiato è emerso in tutta la sua gravità alla fine del 2016, con la discontinuità introdotta dalla Brexit e dalla vittoria di Trump. Due fenomeni che hanno sollecitato l'imprescindibile bisogno di comprendere le ragioni della profonda delusione. Il titolo "La democrazia del nostro scontento. Dal 1989 al 2016: il mondo tra attese e delusioni", sintetizza questo cambiamento del modo in cui l'intero Occidente ha rappresentato sé stesso. Il 1989 aveva simbolicamente segnato l'apertura verso un mondo senza confini, mentre il 2016 condensava la delusione e la rabbia di una grande parte di popolazione che si sentiva tradita negli ideali di un liberalismo inclusivo fondato sulla crescita dei ceti medi.

È apparso evidente che gli scontenti della democrazia non sono solo gli ultimi, ma tutti coloro che hanno percepito un orizzonte bloccato, che hanno visto evaporare l'idea di una società fondata sulla mobilità. Questi sentimenti, insieme all'erosione del lavoro, sono alla base della crisi della democrazia esplosa nel 2016.
Ne abbiamo parlato con i due autori.

Quali sono le principali motivazioni del disincanto dei cittadini verso la politica?

Il disincanto dei cittadini nasce dalla consapevolezza della gravità dei problemi che, come abbiamo illustrato nel libro, non sono contingenti e dalla convinzione che la politica oggi non sia in grado di affrontare questi problemi derivati da un cambiamento profondo. Lo conferma il tono di questa lunga campagna elettorale, in cui la discussione è mossa da tattiche elettorali e attraversata da promesse irrealizzabili, con la consapevolezza che dopo non potranno essere mantenute.
Inoltre, per diverse ragioni sociali abbiamo assistito ad una mutazione radicale nei modi di formazione della rappresentanza: i leader sono sganciati da una logica di rappresentanza, non sono espressione di mondi reali.


Ciò favorisce un linguaggio populista, genericamente orientato a catturare adesioni.
Al contrario, per evitare che la democrazia diventi un guscio vuoto è necessario prendere sul serio i motivi della disaffezione nei suoi riguardi. Ed è proprio questo l'intento e il filo del nostro contributo che scava nell'intreccio tra tendenze epocali, fatti materiali e sentimenti.

È più preoccupante a vostro giudizio la qualità dei candidati e politici oppure quella della proposta programmatica?

Qualità dei candidati e qualità della proposta politica sono inscindibili, ma la prima è in un certo senso la premessa della seconda. La proposta programmatica è uno dei primi compiti di una classe politica di qualità, che ha una visione e nel contempo si orienta a intercettare analisi di esperti in grado di dare corpo a quella visione. Va evidenziato che oggettivamente i problemi non possono trovare soluzioni miracolistiche nel breve periodo. D'altra parte vi è un contrasto altrettanto oggettivo tra due risposte possibili. Vi è un modo di rispondere attivo e consapevole della necessità di uno sguardo di lungo periodo, fondato sulla necessità di accettare la sfida e rispondere con l'istruzione.


E vi è, al contrario, un modo puramente difensivo: la sfida è impossibile da vincere e allora lo Stato deve assistere i perdenti, che sono la stragrande maggioranza dei cittadini.

Dedicate giustamente molta attenzione anche ai linguaggi della politica e ai social: quali sono le maggiori criticità che intravedete nell'uso fattone in politica e, per contro, quali i vantaggi

La democrazia non può sopravvivere senza una narrazione condivisa, ovviamente condivisa non perché imposta, ma perché scaturita da una discussione rigorosa e basata sull'autorevolezza di esperti nei diversi ambiti. La tentazione troppo frequente di discutere sulla base di opinioni piuttosto che su analisi fondate è parte della crisi della democrazia, perché sposta il confronto da un piano razionale ad uno emozionale. Abbiamo assistito allo svuotamento del confronto pubblico, il palcoscenico dei populismi è stato allestito con la complicità dei partiti che hanno condotto il confronto giocando su linguaggi sempre più impregnati di emozioni. Le nuove forme della comunicazione hanno avuto un peso in questo processo.
Possiamo chiederci quale sia stato il ruolo dei social network: se i social siano un forum pubblico in cui le idee possono essere confrontate apertamente, o al contrario - come diverse analisi sottolineano - un luogo in cui le persone frequentano mondi separati e in cui, ognuno per effetto di meccanismi tecnologici, riceve un'informazione che lo rinforza nelle proprie posizioni perché allineata con quella espressa in precedenza.



In sostanza oggi la personalizzazione dei messaggi accentua la polarizzazione delle opinioni, ci rende più estremisti e più conflittuali al tempo stesso. Lo stesso Zuckerberg cerca una strada per correggere la deriva pericolosa dei social che alimenta le fake news e si presta a manipolazioni di diversa natura.

Cosa fare per riavvicinare i cittadini alla politica?

Anzitutto sarebbe indispensabile dire la verità; una verità che avrebbe dovuto essere chiaramente esplicitata alla fine degli anni '80 di fronte all'esplosione della globalizzazione: vale a dire il fatto che non esistono aree protette, né è possibile ripristinare confini basati sulla assoluta sovranità nazionale. E poi tracciando linee da percorrere, anzitutto per i giovani: istruzione, istruzione, istruzione. Inoltre sarebbe necessario assicurare un'adeguata copertura per chi è obiettivamente in difficoltà e non riesce a mantenere il passo.
Il lavoro ha subito una trasformazione profonda e resta la sfida centrale, che può essere affrontata solo prendendo atto della rivoluzione indotta dai robot. Tutte le professioni sono attraversate dalle nuove tecnologie, i programmatori di robot come gli infermieri e i medici.


Mestieri diversi, ma che richiedono tutti il massimo livello di qualificazione. Senza dimenticare gli operatori culturali, gli insegnanti e tanti altri lavori oggi incerti e precari. In sostanza l'istruzione è l'unica risposta credibile nel medio periodo, per utilizzare al meglio le opportunità dischiuse dalle tecnologie e contrastarne gli effetti negativi sull'occupazione.

Il candidato e la proposta come un prodotto pubblicitario: cosa non funziona nella nostra democrazia?

Il paradosso è che oggi la politica è diventata una pratica di marketing: si insegue il cittadino-votante come se fosse un consumatore e, quindi, gli si dà quello che chiede, senza verificarne la fattibilità e la qualità politica. Lo vediamo nella campagna elettorale di oggi, dove si fa a gara a spararla più grossa, mentre i sondaggi rilevano gli umori degli elettori e al tempo stesso li influenzano.
Questa corsa alla politica-marketing paradossalmente esplode mentre il marketing, almeno quello con uno spessore tecnico-culturale, va nella direzione opposta: non insegue i desideri, ma cerca di interpretare i bisogni "veri". Oggi il marketing delle aziende è data-science, nel senso che cerca di interpretare i bisogni veri delle persone e si propone di offrire prodotti e servizi adeguati a questi bisogni.


Si pensi ai nuovi prodotti food, che devono rispettare la sostenibilità ambientale ed essere orientati alla salute, che cercano di rispondere ad una domanda di vita sana, permettendo una giusta indulgenza per determinati prodotti, ma senza esagerazioni. Si pensi alla preoccupazione per il consumo di zucchero. Rispetto a questo nuovo marketing, che si fa carico della dimensione etica, la politica è rimasta indietro oscillando tra due linguaggi: quello dei valori, che suonano retorici, e quello delle pratiche, appiattite su fatti e umori contingenti.
Le persone vivono di narrazioni, è vero, ma quando queste sono troppo lontane dalle condizioni sperimentate, la fiducia crolla. La politica dovrebbe dire: siamo in grado di fare poco, ma lo faremo in modo serio e a vantaggio di tutti.

Titolo: La democrazia del nostro scontento. Dal 1989 al 2016: il mondo tra attese e delusioni
Editore: Carocci
Pagine: 189


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