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30/01/2019

economia

Non preoccupiamoci per i tassi

Iggo (Axa IM): non è chiaro se abbiano già raggiunto i valori massimi, ma sono quelli su cui dobbiamo ragionare in un momento di rallentamento

A dicembre abbiamo assistito a un forte aumento della volatilità, seguito a gennaio dal rimbalzo del rischio. La Federal Reserve ha trovato un nuovo accordo coi mercati. I tassi restano invariati e la pazienza diventa una virtù fondamentale per la politica monetaria. Non è chiaro se i tassi abbiano già raggiunto i valori massimi (secondo la maggior parte degli economisti i tassi neutrali sono leggermente superiori ai livelli attuali), ma possiamo dire che li hanno raggiunti per il momento.
C'è chi cerca di dare la colpa del rallentamento economico alla banca centrale americana ma gli scambi commerciali e la sospensione dei servizi federali incidono maggiormente. Sebbene le azioni e il credito abbiano reagito bene all'approccio più accomodante della Fed, per assistere a una ripresa sostenuta dei mercati e per frenare la tendenza al ribasso della crescita servono un accordo commerciale e un governo americano che funzioni. Qui da noi deve invece finire questa incertezza sulla Brexit.

Un po' di pazienza

Le pressioni da parte del Presidente Trump e dei mercati finanziari hanno spinto la Federal Reserve ad adottare un approccio più accomodante sui tassi di interesse.

A dicembre i tassi sui fed fund sono saliti al 2,5% e sembra che resteranno su questi livelli per un bel po' di tempo. Nessuno sa se siamo vicini al livello neutrale o meno.
Fatto sta che la banca centrale americana si è resa conto che, se avesse continuato con il ciclo di stretta di un quarto di punto ogni 3-6 mesi, la volatilità che si è abbattuta sui mercati azionari a dicembre avrebbe potuto continuare a manifestarsi nel 2019, con conseguenze dannose per le prospettive dell'economia. Suppongo che molti funzionari della Fed siano più ottimisti in merito alle prospettive di crescita economica nell'anno in corso rispetto a quanto si evince dalla brusca flessione dei prezzi azionari o dall'ampliamento degli spread di credito verso la fine dello scorso anno.
Eppure, nello stesso tempo si sono fatti più attenti ai segnali lanciati dal mercato (appiattimento della curva dei rendimenti e aumento del premio per il rischio di credito e azionario), nonché allo scenario politico. E con questo mi riferisco alle critiche espresse pubblicamente dal Presidente Trump nei confronti della Fed. Sarebbe estremamente dannoso se la Federal Reserve si lasciasse coinvolgere nel diverbio con l'esecutivo, soprattutto perché presto si chiarirà che il deterioramento delle prospettive economiche dipende più dalle politiche della Casa Bianca che dal livello dei tassi di interesse.

Ogni recessione negli Stati Uniti, nel periodo post-bellico, è stata preannunciata da tassi di interesse reali a breve termine molto più alti rispetto a quelli odierni. Dunque, anche se la Fed può essere criticata per molte ragioni, non da ultimo per la mancanza di una chiara filosofia politica nel periodo successivo alla crisi, credo che la banca centrale esca da questa fase meglio del Presidente. La maggior parte delle recessioni è stata provocata da uno shock oppure dalla banca centrale, ma non credo che la Fed finora sia intervenuta al punto da provocare una recessione.

Shock n. 1: gli scambi commerciali

Comunque, le prospettive di crescita globale vengono riviste al ribasso in considerazione di una serie di possibili shock. Uno di questi è il protezionismo commerciale. Gli Stati Uniti hanno già innalzato i dazi doganali. Teoricamente questo fa salire i prezzi all'importazione per i consumatori americani, spostando la domanda dalle importazioni verso la produzione locale. Dato che gli Stati Uniti si trovano vicino alla piena occupazione, tali dinamiche potrebbero generare una domanda inflazionistica di risorse locali, con ripercussioni sui prezzi finali poiché salgono i costi dei semilavorati.


I Paesi esportatori dovrebbero registrare un calo della domanda dall'estero e tendenze deflazionistiche.
La riduzione della produzione grava poi lungo l'intera catena di distribuzione. In realtà è complicato ma i recenti segnali confermano tali sviluppi. La fiducia delle imprese è scesa molto. L'indice ISM manifatturiero USA ha perso 4 punti a dicembre, scendendo a 54,1, il calo mensile più consistente dal 2008. Gli indici sono deboli anche in Europa e in Asia. I dati in Cina hanno continuato a calare e l'inflazione a dicembre, pubblicata questa settimana, è stata assai inferiore alle aspettative. L'economia cinese ha risentito degli scambi commerciali (e la situazione potrebbe peggiorare ancora) e del deleveraging in corso nel Paese. Lo abbiamo visto nella revisione al ribasso dei ricavi previsti da Apple Incs e nel consistente calo delle esportazioni tedesche in Cina. Più in piccolo, un no deal sulla Brexit implicherebbe un aumento dei costi all'importazione per il Regno Unito e gli esportatori britannici si troverebbero di fronte a dazi più elevati per le loro merci.


È impossibile trovare accordi commerciali con Paesi terzi abbastanza rapidamente da compensare la perdita dei rapporti esistenti con l'UE. Il protezionismo ottiene i favori di qualche gruppo di pressione (questa settimana il Presidente Trump ha sostenuto i dazi sull'acciaio proposti dal leader di uno dei principali sindacati del Paese) e si addice alle idee populiste, tuttavia la maggior parte degli economisti ritiene che sia una cattiva idea. Determina infatti una ripartizione inefficiente delle risorse globali.

Shock n. 2: il petrolio

Dunque, gli scambi commerciali possono intensificare i rischi per la crescita. Per gli Stati Uniti ci sono anche altri due fattori. Il primo è la flessione del prezzo del petrolio e il suo impatto sul settore dell'energia statunitense. L'indice della fiducia delle imprese della Fed di Dallas, a dicembre, ha evidenziato un brusco calo nella maggior parte delle categorie. L'indice dell'attività economica è sceso dal 17,6 al -5,1, trainato dal deciso peggioramento delle proiezioni delle imprese. Questi sviluppi potrebbero provocare uno shock nel breve termine. Il prezzo del petrolio ha rimbalzato; nel momento in cui scriviamo il prezzo a pronti del Brent è di 60,7 dollari al barile.


Recentemente era di circa 10 dollari più basso, mentre solo a settembre il prezzo era oltre gli 85 dollari al barile. Tale brusca flessione influirà sulle proiezioni di ricavo dei produttori di petrolio. Ma il rimbalzo sarà sostenibile? La Casa Bianca si è espressa chiaramente dicendo di voler prezzi più bassi e dubito che il mercato torni oltre quota 70 dollari come nella maggior parte del 2018. È possibile che per il momento il petrolio abbia toccato i minimi, ma io credo che il settore dovrà abituarsi a un prezzo medio inferiore. Shock n. 3: la politica

L'altro shock per gli Stati Uniti riguarda l'impasse politico, che ha portato alla parziale sospensione dei servizi federali. Più a lungo durerà questa situazione, maggiore sarà l'impatto sulle prospettive dell'economia attraverso l'interruzione dei pagamenti e dei salari dei dipendenti federali. Non sono stati pubblicati molti dati. Mi aspetto che il clima invernale avrà i consueti effetti sull'attività economica, conferendo ulteriore incertezza alla situazione americana all'inizio di quest'anno. Ciò potrebbe bastare a diffondere l'avversione al rischio sui mercati, soprattutto se i leader democratici continueranno a rifiutarsi di fornire i fondi per la costruzione del muro al confine e se il Presidente Trump si rifiuterà di firmare la riapertura dei servizi governativi.


Capisco che la sua filosofia sul commercio e sulle frontiere si fondi sull'idea di fare qualche sacrificio oggi per raccoglierne i frutti nel lungo termine, ma non credo che i mercati la condividano. Pain trade

Naturalmente c'è anche uno scenario ottimistico. Si potrebbe giungere all'accordo commerciale con la Cina. Le due fazioni politiche, in America, troverebbero così un punto d'intesa. Se la Federal Reserve non alzerà i tassi per un paio di trimestri, uno scenario di questo tipo potrebbe far risalire i mercati azionari e arginare le revisioni al ribasso del Pil. Qualora le autorità cinesi proseguissero poi con l'approccio accomodante, il quadro potrebbe cambiare radicalmente. La nota dolente in questo caso sarebbe un nuovo rialzo del rendimento dei Treasury e delle aspettative sui tassi. Questi sviluppi sono necessari affinché la Fed sia in grado di contrastare il Presidente e i mercati e di riprendere la stretta, per cui al momento noi non ci aspettiamo un altro intervento sui tassi, almeno fino a giugno. I dati devono rimbalzare (soprattutto gli indicatori di fiducia), gli "shock" devono diminuire, la Cina deve stabilizzarsi e la volatilità del mercato deve scendere e restare su livelli più contenuti.




Yield più alti

Nonostante la volatilità del mercato dalla fine dello scorso anno, il reddito fisso si sta comportando come previsto nel nostro riesame della strategia di dicembre. Il settore più colpito nel 2018 oggi è in testa in termini di rendimento complessivo. Siamo solo all'inizio, naturalmente, ma il debito dei mercati emergenti sta andando bene, sostenuto dalla pausa nei rialzi dei tassi di interesse negli Stati Uniti, dalla stabilità del dollaro e dal fatto che molti investitori, l'anno scorso, hanno chiesto il rimborso delle loro posizioni su questi mercati. L'inserimento di alcuni emittenti del Medio Oriente nei principali indici da inizio anno ha contribuito a tali sviluppi. Secondo noi, sia le previsioni macroeconomiche che del credito per i mercati emergenti sono abbastanza robuste. Recentemente l'Arabia Saudita ha lanciato una grossa emissione obbligazionaria che è stata accolta molto bene dal mercato, anche grazie all'aumento del prezzo del petrolio. L'indice JP Morgan Emerging Bond Global Diversified è salito dell'1,82% finora a gennaio, seguito da un calo del 5% circa nel 2018.


Le prospettive ci sembrano positive anche per i mercati high yield, che stanno realizzando buone performance dopo un dicembre torrido.
Il mercato high yield negli USA ha riportato un rendimento impressionante finora, del 3,2%; lo spread medio sull'indice è sceso dai 544 p.b. del 3 gennaio ai 452 p.b. attuali. Per lo yield, si è trattato di passare dall'8,1% al 7,2% in poco più di una settimana. Naturalmente, ora il rischio per gli investitori è di inseguire il mercato nel momento in cui le prospettive fondamentali a breve termine, per tutte le ragioni che abbiamo citato, sono tutt'altro che certe. Eppure questi yield sono interessanti quando la Fed non interviene sui tassi. Investire in un portafoglio high yield al 7,1% significherebbe un rendimento positivo in un anno, nella misura in cui lo yield restasse al di sotto dell'8,875%. Il carry è interessante per le obbligazioni high yield e dei mercati emergenti e, persino per gli investitori britannici ed europei, l'aumento degli yield e il rallentamento dei tassi negli USA ha migliorato il rendimento coperto previsto per i titoli a più alto rendimento denominati in dollari.

La Brexit

Ancora non sappiamo come saranno i futuri rapporti del Regno Unito con l'Europa.


Comunque, e nonostante la situazione politica interna sempre più tesa, non è ancora chiaro come comportarsi con gli strumenti finanziari britannici. La sterlina è stabile rispetto al dollaro da un po' di tempo (1,25-1,30 dollari da inizio novembre), il rendimento dei Gilt e gli spread di credito non sono molto diversi dagli altri principali mercati obbligazionari, mentre il mercato azionario britannico (almeno il FTSE-100) ha fatto meglio della maggior parte degli altri indici, compreso l'S&P 500. Il problema degli investitori col mercato britannico è che ci sono molte incertezze. Primo, la politica. In questa fase, tra i possibili scenari c'è l'estensione dell'Articolo 50, un no deal, l'uscita dall'unione sulla base dell'accordo predisposto dal Primo Ministro May, un secondo referendum e nuove elezioni generali. Il secondo fattore di incertezza riguarda le possibili implicazioni economiche di tali scenari politici, e il terzo riguarda le risposte della politica sulla scia del previsto shock economico. A differenza di quanto avverrebbe in caso di uscita dall'UE della maggior parte degli altri Paesi membri, non c'è un rischio di ridenominazione per gli investimenti in sterlina e il rischio di una fuga dei capitali è assai inferiore al caso in cui il Regno Unito facesse parte dell'Eurozona.


Un no deal rappresenterebbe probabilmente lo scenario peggiore per l'economia, quindi molto dipende dalla politica monetaria e fiscale. Ci piacerebbe pensare che lo shock per la crescita sarebbe più importante per il comitato di politica monetaria che lo shock inflazionistico, per cui i tassi verrebbero tagliati e il Quantitative Easing ricomincerebbe. Sarebbe positivo per i Gilt. Ma cosa accadrebbe se ci fosse un consistente intervento fiscale per arginare lo shock della crescita? L'offerta di Gilt aumenterebbe. L'esperienza precedente con il QE ci dice che gli yield scenderebbero. Sul fronte del credito, molto dipenderebbe dal costo del denaro e dal profilo di utile degli emittenti britannici.
Non ho dubbi sul fatto che un no deal sulla Brexit sarebbe dannoso per l'economia. D'altra parte, la sterlina più debole, i tassi più bassi e gli stimoli fiscali potrebbero rendere questa situazione non permanente. Dunque è difficile fare previsioni sull'andamento del mercato rispetto all'evoluzione della Brexit. La mia impressione è che uno shock politico, per esempio l'incapacità di trovare un accordo o un cambio di governo dopo le elezioni, farebbe scendere la sterlina al di sotto di 1,20 dollari.


Sarebbe il livello minimo che ho visto nella mia carriera, e sarebbe un deciso invito all'acquisto.

Chris Iggo, Chief Investment Officer, Fixed Income Axa Investment Managers


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