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24/06/2020

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Gli italiani si sentono apprezzati in azienda ma con stipendi non adeguati

 

Cerasa (Randstad): una buona strategia di employer branding non può prescindere da un mix equilibrato fra riconoscimento personale e formazione, affinché i propri dipendenti si sentano motivati sul lavoro

Sette lavoratori italiani su dieci sentono che il proprio valore è apprezzato dal datore di lavoro e il 63% percepisce che l'azienda sta investendo nella sua crescita professionale. Questo riconoscimento, però, troppo spesso non si traduce in uno stipendio adeguato: solo il 54% dei dipendenti pensa di avere un salario competitivo (nove punti sotto alla media globale), con un divario di ben dieci punti fra i lavoratori (59%) e le colleghe (49%) e fra i dipendenti sotto i 25 anni (i più soddisfatti, 61%) e gli over 55 (49%). La forbice si allarga ulteriormente se si confrontano i lavoratori italiani con i colleghi di alcuni dei principali paesi europei come Spagna (63%), Regno Unito (68%) e Germania (71%).

Gli italiani si sentono apprezzati in azienda ma con stipendi non adeguati

L'inadeguatezza degli stipendi genera una sensazione di insicurezza per il futuro, con quasi due dipendenti su tre convinti che dovranno posticipare il pensionamento perché non hanno risparmi sufficienti (64%, due punti in più della media globale), una percezione diffusa in tutte le fasce d'età, soprattutto fra le donne (66%) i giovani sotto i 25 anni (67%) e il segmento dei 35-44enni (69%). Ma l'incertezza riguarda anche il presente, con ben il 91% che sarebbe disposto a investire in ulteriore formazione per evitare di restare senza lavoro (+5% sulla media mondiale). A preoccupare sono soprattutto le competenze digitali e tecnologiche: il 72% dei dipendenti, infatti, pensa che le imprese preferiscano assumere lavoratori giovani perché più a loro agio con le nuove tecnologie (due punti in più della media globale).
È quanto emerge dall'ultima edizione del Randstad Workmonitor - l'indagine sul mondo del lavoro di Randstad, primo operatore mondiale nei servizi HR, condotta in 34 Paesi del mondo su un campione di oltre 800 lavoratori di età compresa fra 18 e 67 anni per ogni nazione, che lavorano almeno 24 ore alla settimana e percepiscono un compenso economico per questa attività - che nel primo semestre 2020 ha analizzato lo status professionale dei lavoratori italiani.

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"Dai risultati del Workmonitor emerge come le imprese italiane siano attente al dialogo e alla valorizzazione della propria forza lavoro, con circa due dipendenti su tre che si sentono apprezzati e supportati nella propria crescita professionale", afferma Marco Ceresa, Amministratore Delegato Randstad Italia. "Le aspettative dei lavoratori, però, soprattutto in periodi di incertezza come l'attuale emergenza sanitaria, riguardano anche la sicurezza economica, ma l'Italia è agli ultimi posti fra i Paesi analizzati per trattamento economico dei dipendenti. Una buona strategia di employer branding non può prescindere da un mix equilibrato fra riconoscimento personale e formazione, affinché i propri dipendenti si sentano adeguatamente apprezzati e motivati sul lavoro e al tempo stesso sostenuti nei loro sforzi per restare al passo con l'evoluzione del mercato".

Lo status professionale dei lavoratori italiani
Dalla ricerca emerge un legame fra l'apprezzamento dell'azienda e la soddisfazione del dipendente per il proprio lavoro. Il 78% degli italiani mette a frutto tutte le proprie potenzialità nell'attuale lavoro, +11% rispetto alla media globale, senza particolari differenze di genere e con punte dell'80% fra i dipendenti 45-54enni e dell'85% fra gli over 55. Il datore di lavoro sembra accorgersene e apprezzarlo, con il 70% dei lavoratori che sente che il proprio valore è riconosciuto sul posto di lavoro, soprattutto fra gli uomini (73%) e gli under 35 (73%), ma questo valore è sette punti sotto la media globale e inferiore a tutti i principali partner europei. Il 63% dei dipendenti percepisce anche l'impegno dell'azienda nella propria crescita professionale (-4% rispetto alla media globale), con punte del 77% fra gli under 25 e del 71% fra i 25-34enni, mentre le lavoratrici e la fascia di età 35-44 sono i segmenti che meno avvertono questo impegno.

Reskilling e Upskilling
Le competenze digitali e l'impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro creano apprensione fra i dipendenti italiani. Il 72% crede che le aziende preferiscano assumere lavoratori più giovani perché ritenuti più esperti nell'uso delle tecnologie, un timore condiviso sia dal personale più senior (over 55, 77%) sia dai giovanissimi (under 25, 74%). Per questa ragione quasi tutti gli intervistati (91%, +5% sulla media mondiale), sono disposti a formarsi ulteriormente pur di non restare senza lavoro, percentuale che sale al 95% fra le colleghe e al 94% tra i 45-54enni. Fra i grandi Paesi europei, solo i lavoratori spagnoli sono preoccupati quanto gli italiani, mentre avvertono molto meno questa necessità tedeschi (74%), francesi (83%) e inglesi (85%).
Sul ruolo dell'azienda nella formazione, il campione si divide. Secondo il 57%, il datore di lavoro offre supporto nell'acquisire nuove competenze o nel trovare un'altra posizione aziendale nel caso la propria mansione diventasse inutile a causa dell'automazione, un punto in meno della media complessiva. Ma solo il 45% afferma che la propria azienda offre piani di formazioni adeguati a preparare il personale alle competenze del futuro (-2% rispetto alla media globale), con l'eccezione dei 18-24enni (58%).

In caso di perdita del lavoro per motivi finanziari, il 53% del campione ripone fiducia nell'aiuto dell'azienda per cercare una nuova posizione grazie al servizio di outplacement (contro il 52% della media globale), soprattutto i lavoratori più junior (61%). Solo il 47% crede invece che il governo li aiuterà sia in termini economici sia nella ricerca di un altro impiego, ben 14 punti sotto alla media internazionale e molto lontani da Germania (77%), Spagna (68%), Regno Unito (65%) e Francia (64%). Incrociando questi due dati emerge come ben il 47% dei lavoratori italiani conti solo sulle proprie risorse in caso di licenziamento (contro il 38% della media globale), contro un altro 47% (-4% rispetto alla media globale) che fa affidamento sul datore di lavoro o sul governo per un sostegno.



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