Il nuovo ordine mondiale: l'assetto economico e sociale del futuro
Alessandro Tentori (Axa IM): occorre trovare una sintesi tra l'apertura internazionale prevista dal WTO e il mercantilismo ottocentesco, senza dimenticare il vertiginoso aumento del debito pubblico dovuto alla pandemia
L'avvicendamento alla Casa Bianca fa presagire una riapertura di quei canali diplomatici e commerciali che l'amministrazione di Donald Trump aveva parzialmente inaridito. Leggo diversi commenti - in particolare sulla stampa mainstream Europea - che auspicano un multilateralismo stile Blair & Clinton, una sorta di governance globale a trazione "occidentale". Se questa visione può rivelarsi corretta nel caso delle relazioni tra USA e vecchio continente, la situazione potrebbe invece riservare delle sorprese per quanto riguarda l'Asia.
Il "Consenso di Washington" - termine attribuito negli anni 80 all'economista John Williamson - viene spesso inteso come un manifesto neoliberale di globalizzazione. In verità, il termine originale ha una definizione più stretta, che si sposa perfettamente con gli standard del Fondo Monetario Internazionale del tempo: Politiche di stabilizzazione macroeconomica, di apertura delle economie a scambi commerciali e investimenti, nonché di esaltazione delle forze di mercato. La narrativa odierna associa spesso e volentieri queste politiche a un periodo di crescita armoniosa, con particolare riferimento all'emergere di una fetta significativa della popolazione mondiale dalla condizione di povertà.
Ma, all'inizio degli anni 90 il mondo era molto diverso da oggi. In particolare, la Cina stava lentamente ritrovando un equilibrio sociale sostenibile, grazie all'effetto delle riforme economiche di Deng e la conseguente urbanizzazione del paese. La Cina di oggi, invece, è un agguerrito concorrente degli Stati Uniti nel campo della tecnologia e si appresta a esserlo anche sui mercati finanziari (valute in particolare).
Il mercato delle riserve valutarie è esemplare: il 63% di tutte le riserve è denominato in dollari, lasciando un 20% all'euro e gli spiccioli a altre valute. Ovviamente, questa allocazione stride con una realtà economica che vede invece la Cina al primo posto in termini di PIL espresso in potere di acquisto in dollari (19% del PIL mondiale). In questa graduatoria, gli Stati Uniti contribuiscono al PIL mondiale per il 15%. Faccio quindi fatica a pensare che l'amministrazione Biden sia disposta a mettere in gioco il monopolio valutario statunitense senza una adeguata controparte strategica. Il pensiero va a una controparte commerciale, ma anche qui gli strateghi di Pechino sono stati bravi a sfruttare prima il vuoto lasciato dalla politica di "America First" e poi il periodo di transizione Trump/Biden per firmare il più grande accordo commerciale al mondo (RCEP).
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