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Ottobre2012

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Ricca (Interbrand): il brand è l’asset di maggior valore per un’azienda

E’ la ricerca di una coerenza fra prodotto, comunicazione, servizi, persone, comportamenti, ambiente e canali

Il brand è cultura, con sfumature profondamente diverse a seconda dell’interlocutore e del mercato, sia aziendale sia più in generale. Il brand oggi è uno dei principali catalizzatori di talento, che ne è attratto oltre l’aspetto remunerativo. Eppure per molte aziende italiane, a differenza di quelle a matrice anglosassone, la percezione del suo valore e delle sue peculiarità per mantenerlo e accrescerlo sono difficili da comprendere.
Ne parliamo con Manfredi Ricca Managing Director della sede italiana di Interbrand, in occasione della presentazione della classifica Best Global Brands 2012.

Il Best Global Brands 2012 è giunto alla sua 13° edizione. Quali maggiori differenze si notano con la prima?

E’ sicuramente una testimonianza del tempo che trascorre. La differenza sostanziale che incontriamo quest’anno è la presenza al secondo posto di Apple, che compie un balzo molto consistente anche solo rispetto all’anno scorso. Si tratta di un brand che all’origine nella classifica nel 2001 non era addirittura presente tra i Top 10. Abbiamo visto grandi come Nokia, presenti nella Top 10 e abbandonarla.

Fa una certa impressione, poichè si tratta di aziende fondamentalmente nello stesso settore, e questo racconta come sia cambiato quel mercato specificamente, con l’avvento degli smartphone come seconda generazione rispetto ai telefoni mobili. Vediamo soprattutto dei brand che sono in grado di rimanere in quella Top 10, anche a discapito di un modello di consumo che cambia. Parliamo, per esempio, di aziende come Coca Cola e McDonald’s, che pur in un mercato che è completamente cambiato (pensiamo alle pulsioni salutiste) sono riuscite a reinventarsi e ad evolversi da questo punto di vista. Credo che sia un’analisi interessante per chi ha abbandonato e, soprattutto, per chi ci è entrato e per chi è riuscito a rimanere. Per quanto riguarda i brand italiani, nel corso del tempi se ne sono avvicendati diversi. Alcuni sono sempre stati parte di questa classsifica, come per esempio Gucci. Abbiamo visto brand entrare in classifica e poi abbandonarla, come Bulgari, o come Benetton, che ha fatto capolino nei primi anni, ma poi ne è uscito. In questo caso si legge un modello di retail che effettivamente cambiato: oggi troviamo in classifica gli Zara e gli H&M che hanno rappresentato il nuovo modello rispetto a Benetton.




Fin dall’inizio della classifica dei brand, al primo posto c’è un leader incontrastato: Coca Cola. Come si spiega?

E’ primo da sempre, e anche ques’anno si conferma, per diversi motivi. Innanzitutto perchè è in una categoria relativamente indifferenziata, come quella dei soft drink. E’ un brand con un potere di attrazione e di fidelizzazione senza pari. In secondo luogo ha sempre saputo rinnovarsi costantemente, con lanci di prodotto continui, ed è un brand che è stato in grado di intercettare in modo tempestivo quelli che sarebbero stati i trend: la bibita gassata per eccellenza è diventata la bibita gassata a calorie zero nel momento in cui questo è diventato rilevante. E’ un brand che ha saputo comprendere quali sono i diversi segmenti di clientela creando prodotti ad hoc. Per esempio, Coca Cola Light per il pubblico femminile, la Zero per quello maschile. E questo è il segreto del suo successo. A questo posso aggiungere un aspetto più intuitivo: se c’è un brand riconosciuto ai quattro angoli del pianeta, esattamente per lo stesso motivo, fan e prodotto, è Coca Cola.

E’ un brand globale ed è stato a lungo associato alla cultura americana, in grado quindi di trascendere quello che è il confine del proprio settore, diventando per antonomasia una “way of life”.


Quali sono, in sintesi, i parametri che portano alla classifica?


Questa classifica, come ogni valutazione che fa Interbrand per i propri clienti, guarda al brand come un asset. Di conseguenza, osserva con gli stessi occhi di un analista finanziario: considerando il valore economico prospettico creato solo ed esclusivamente dal brand, e quello che è il rischio associato a quel brand. Quindi così come valuteremmo un’azienda o qualsiasi asset in base al valore atteso e il rischio, lo stesso si fa con il brand. E questo rende la valutazione compatibilie con una moderna valutazione d’azenda. I parametri presi in considerazione sono tre. Innanzitutto, il valore economico creato a livello aziendale, che parte dalle revenue e che poi viene depurato dai costi generali e quelli del capitale. Poi viene quello che noi definiamo il “ruolo del brand”, la misura in cui è decisivo ad acquisire e mantenere la domanda nel tempo, e questo cambia in funzione del settore e del modello di business.


Da ultimo consideriamo il profilo di rischio del brand, che è basato su 10 fattori che nascono dalla nostra esperienza e che sono correlati (statisticamente dimostrato) con la quota di mercato. Questi fattori vengono letti in chiave competitiva e permettono di definire la probabilità che quel brand continuerà ad avere una performance soddisfacente rispetto ai propri competitor. Mettendo insieme questi tre aspetti, abbiamo una valutazione che è estremamente grannulare e puntuale.


Interbrand è una società internazionale leader nel suo settore. Quali sono le aree di competenza e quali servizi offre alle aziende?

La nostra azienda ha come focus il brand, ed evidentemente abbraccia una rosa di discipline. Siamo quindi una società multispecializzata al cui interno confluiscono alcune figure molto diverse tra loro, che vanno d analisti finanziari a esperti di statistica, da designer ad architetti, per arrivare a linguisti e consulenti strategici. Questo perchè il brand è un asset poliedrico: richiede una forte dose di creatività, che evidentemente deve essere legata alla strategia, che a sua volta deve essere legata al valore economico.


Quindi quello che Interbrand fa è fondamentalmente mettere il brand al servizio della strategia di business, poichè il brand è un catalizzatore di valore economico e di cambiamento. Noi partiamo da una strategia di business e operiamo per fare in modo che il brand sia in grado di far si che quella strategia si realizzi.


Ci sono differenze nell’approccio al brand tra l’Italia e altri Paesi?

Fondamentalmente si, poichè il brand è disciplina. E il nostro Paese e la nostra cultura non sono proprio i primi che vengono in mente quando si pronuncia questo termine. In Paesi di matrice anglosassone il brand è accettato e ricunosciuto come asset. Una questione che Interbrand ha posto ormai 40 anni fa: non c’è dubbio che il brand sia un asset e come tale richieda una consulenza specifica con competenze particolari. Per quanto riguarda mercati come, per esempio, quello tedesco, il brand è veramente una ricerca di una coerenza fra prodotto, comunicazione, servizi, persone, comportamenti, ambiente e canali. Per quanto riguarda il mercato italiano, credo che rispetto a 10 anni fa – sempre per mantenere la tempistica della nostra classifica – si siano fatti dei passi enormi.


In un Paese in cui esiste ancora molto personalismo, come in molte aziende che sono fortemente ancorate allo stato familiare, il brand è un qualcosa che fortemente stride con questa impostazione. Questo perchè gestire un brand significa in qualche modo riconoscere che questo è il principio organizzativo centrale. Laddove c’è una troppo forte polarizzazione su una famiglia o su un individuo specifico, questo è un elemento da tenere in considerazione e da conciliare. Difficile riuscirci.


Quindi il brand e?...

Il brand è cultura, e quindi ha sfumature profondamente diverse a seconda dell’interlocutore e del mercato. E parliamo sia di cultura aziendale sia più in generale. Il brand oggi è uno dei principali catalizzatori di talento. Quello che è in circolazione non viene attratto unicamente dall’aspetto remunerativo, ma anche dal brand, dal senso di visione che questo è in grado di promuovere. E poi cultura in senso più ampio, perchè siamo fermamente convinti che i brand abbiano la possibilità di cambiare il mondo in meglio, poichè sono in grado di “guidare” le percezioni. E nel momento in cui un brand è in grado di farlo con una visione onesta, con l’intento di migliorare l’umanità come dovrebbe essere, può incidere sul modo in cui ragioniamo e viviamo.


Vediamo che nella classifica, al di là della valutazione etica, che esistono brand che hanno cambiato il nostro modo di vivere. Apple ha cambiato il modo di comunicare e di ascoltare musica. IKEA ha modificato il modo di concepire l’arredamento della casa. Brand come Zara hanno in parte ridefinito il concetto del fashion. E gli esempi potrebbero continuare. Siamo quindi in presenza di brand che incidono sulla cultura e che in qualche modo definiscono i Paesi da dove arrivano. E’ interessante, a mio avviso, vedere come molto spesso la cultura influisca sui brand ma raramente avvienga il contrario. Se tutti noi siamo convinti della forza dell’ingegneria tedesca è anche grazie al fatto che siamo di fronte a brand come BMW, Mercedes, Gruppo Volkswagen, che esportano auto. Se pensiamo all’Italia associata a stile e bellezza, è anche grazie a brand come Prada e Gucci, che nel tempo hanno raccontato questo del nostro Paese. In pratica, i brand sono un messaggio di una cultura, e devono esser visti anche in questa luce. E’ una fantastica opportunità ma soprattutto una grossa responsabilità, che va considerata con profondo rispetto.


Il ciclo di vita del brand

E’ un errore in termini, poichè non ci dovrebbe essere un ciclo di vita del brand! Questo dovrebbe rappresentare un continuum, e ogni singolo giorno dovrebbe esser messo in discussione e riaffermato.


Crediamo poco all’idea di un brand che nasce, si trasforma, e muore o comunque va in declino. Il brand dovrebbe essere un asset pulsante e vivo, e di conseguenza non dovrebbe avere un ciclo di vita ma una vita. Questa deve essere scandita con profonda regolarità. Infatti, i grandi brand non si creano, ma si costruiscono nel tempo. E’ il nostro approccio e il modo in cui lavoriamo con i nostri clienti, con alcuni dei quali abbiamo rapporti ormai trentennali, con contatti settimanali, poichè i loro brand hanno bisogno di evolversi, pur rimanendo coerenti, settimana dopo settimana. Letteralmente.


A cosa serve la valutazione o il valore di un brand

La valutazione nasce dal riconoscimento di un paradosso. Molto spesso il brand è il principale asset in termoni di valore economico di una azienda. E paradossalmente è l’asset di cui non si conosce il valore. Quindi, la cosa che vale di più all’interno di una azienda è ignota.
Valutare un brand significa innanzitutto avere la consapevolezza di sapere che cosa rappresenta in termini monetari, ma soprattutto consente di capire dove “mettere le mani” per far si che il brand crei ancora più valore per l’azienda.


Quindi, dalla valutazione in sè del brand, si dipanano diverse discipline e metodi analitici, che consentono esattamente di capire in quale mercato, categoria merceologica, gruppo di consumatori, o canale distributivo occorre agire per massimizzare il ruolo e il valore prodotto dal brand. E questo è il beneficio principale. Se la Brand Evaluation è nata originariamente come strumento per conoscere il valoro di questo asset - al momento di una fusione, una acquisizione o una cessione -, oggi è uno strumento strategico e decisionale. E’ una piattaforma su cui, con la maggior parte dei nostri clienti, prendere decisioni di branding, che siano esse di posizionamento, di revisione di dell’identità o del portafoglio di brand, ecc. La Brand Evaluation permette che queste decisioni siano perfettamente allineate a quello che è il conto economico di un’azienda.


La case Pirelli

Pirelli è stata la prima azienda in Italia che ha reso pubblicato il valore economico del proprio brand, da noi calcolato e che continuiamo a misurare nel tempo. Si tratta di una azienda straordinaria, poichè sta veramente riconcependo quello che significa essere “premium” in un settore in cui in precedenza questa terminologia era completamente assente.


Lavorare per brand come questi è un privilegio e accompagnarli in questa evoluzione è una grandissima opportunità. Con Pirelli abbiamo intrapreso questo percorso che permette effettivamente di non solo di presentarsi agli investitori con dei risultati economici e con un piano industriale, ma anche di far comprendere e in che misura l’asset del brand si evolve nel tempo e, soprattutto, contribuisce a far si quel piano industriale si realizzi. Quindi, Pirelli è un formidabile esempio di come il brand sia letto in chiave di piano industriale. Questo è come dovrebbe essere, ed è riconosciuto, come asset. Rappresenta uno dei brand a maggior valore economico che ci siano in Italia.


Quali sono le maggiori evidenze del rapporto 2012?

Partirei innanzitutto da casa nostra. E’ un graditissimo e giusto rientro, quello di Prada, che è alla posizione 84, quindi un ritorno in grande stile. E’ un brand con dei tassi di crescita stratosferici, che è riuscito addirittura ad imporsi in mercati emergenti prima che venissero definiti tali, e che oggi li identificheremmo come a rapida crescita. Si tratta di un brand che è in grado di ridefinire ogni volta lo stile, di rompere le convenzioni pur rimanendo fedele a sè stesso, stando lontano dal gusto della provocazione per il solo gusto della stessa.


Quindi un brand italiano che detta lo stile e un’estetica. Questo è legato ad aspetti anche molto più sottili, per esempio, dal collegamento con l’arte contemporanea. Un altro brand è Gucci, che sale di una posizione ed è il primo italiano in classifica. E’ riuscito a reinventarsi, o comunque a compiere l’evoluzione nellla direzione corretta, dopo l’esodo di Tom Ford. E’ un brand fortemente rilevante e che sta riuscendo nell’impresa di bilanciare il concetto di artigianalità italiana con una rilevanza di “coolness” a livello mondiale. E’ un equilibrio molto difficile da mantenere. Vedremo i prossimi anni che cosa porteranno. Terzo brand italiano in classifica è Ferrrari, alla 99° posizione. Si tratta di un brand straordinario: la sua posizione non deve far pensare a un insuccesso, bensì ad un grande successo. Dal punto di vista economico è relativamente piccolo e si trova catapultato in una classifica dove i giri di affari sono molto diversi. Vedere Ferrari in questa classifica è qualcosa che testimonia quale tipo di brand sia nel creare valore economico in una azienda relativamente piccola, secondo tutti quelli che sono tutti i parametri internazionali.



Abbandonando casa nostra, l’aspetto più visibile in generale è la crescita di Apple. Arriva ad essere il secondo brand in classifica e testimonia come questo brand, che era computer – e per un periodo è stato anche sinonimo di computer desueto – sia adesso un brand pervasivo. E’ un brand di contenuti, che sta influenzando il modo in cui interagiamo con qualsiasi tipo di provider di prodotto o di servizio oggi. Quindi un brand che ha contunuato a rivoluzionare il modo in cui interagiamo fisicamente con la tecnologia, con l’avvento di un touchscreen che non ha inventato ma che ha reso rilevante. Dell’iPhone credo che si sia detto tutto il possibile: è entrato in un mercato estremamente concentrato e ha ridefinito alcune di quelle regole. Siamo quindi di fronte a un brand che più che clienti ha cultori. Il fatto è che esistono brand così, ma non hanno milioni di cultori. Apple è riuscita a sovvertire questo equilibrio. Parlando di Apple, viene in mente Samsung... Questo è un brand che si porta in nona posizione nella classifica. Una cosa difficilmente ipotizzabile: fino a una decina di anni fa era essenzialmente un’azienda di semiconduttori e di alcuni prodotti consumer di basso costo.


E’ riuscita nell’impresa di creare un brand quasi da zero, e soprattutto di collocarlo nella fascia Premium nei mercato dove opera. In particolare, è un brand leader globale nell’ambito degli smartphone, il segmento a più alta crescita e il più profittevole. Il tutto in una decina d’anni. E’ la testimonianza di come con forza e coerenza si possa costruire un brand. Soprattutto se lo si vede in parallelo rispetto a Sony, che 10 anni fa sembrava un’icona totalmente indistruttibile e granitica, e che in realtà ha segnato il passo rispetto a Samsung. Quindi è interessante notare come Samsung abbia avuto un approccio “monolitico” al proprio branding, che si tratti di lavatrici, cellulari o schermi piatti. Mentre invece Sony abbia condotto una politica più di frammentazione, con Playstation, Vaio e Bravia. Ad oggi, in un momento in cui tutto converge, l’approccio monolitico di Samsung sembra essere quello vincente.
Si parla sempre poco in Italia di Amazon, anche se quest’anno si dovrebbe, grazie ad amazon.it, poichè è un brand che ha ridefinito il concetto di retail e quindi di servizio al cliente. E’ un brand dei promordi, uno dei pochissimi ad essere sopravvissuto della prima ondata internet, che continua a fare performance straordinarie.


A mio avviso è ammirevole, poichè ha inventato o comunque commercilizzato il device che potenzialmente potrebbe mettere in pericolo la propria principale fonte di business, i libri. Questi sono i brand che anzichè cercare di godere di una posizione di privilegio, o comunque arroccarsi su quello che è il business attuale, sono in grado di mettersi in discussione e creare la competizione col proprio business vincendo la partita.
Dalla classifica 2012 esce Armani, sostanzialmente per motivi di scaristà di dati finanziari pubblicamente disponibili e quindi non è stato possibile condurre una valutazione, che è uno dei criteri alla base della nostra classifica. Direi che l’altro aspetto da sottolineare è legato a due settori.
Il primo è quello finanziario, che ha visto un po’ di uscite dalla classifica, e forse non sorprende. Per esempio, non sono più presenti brand come UBS, Barclays e Zurich. Su Barclays non può non pesare lo scandalo “libor”, che dal punto di vista finanziario è di una enormità notevole ma, più in generale, si tratta di brand che sono più esposti a un rischio maggiore, e questo di conseguenza incide sulla loro valutazione.



L’altro aspetto riguarda il settore automotive, che rappresenta quello più cospicuo presente in classifica, se andiamo a clusterizzarla per settori. E’ interessante notare l’ottima performance del Gruppo Volkswagen, presente di fatto con 3 brand in classifica, a testimonianza di una straordinaria capacità di gestire i brand. Capacità che non troviamo in altri gruppi. Parliamo del brand Volkswagen in sè, Audi (che non solo è entrato in classifica, ma è diventato un punto di riferimento), e Porsche. Quest’ultimo è ormai consolidato dentro il Gruppo Volkswagen e soprattutto è riuscito a estendere il proprio modo di essere; il modello Cayenne è stato un successo e più recentemente con Panamera ha sovvertito quelle che erano le aspettative di vedere per sempre una Porsche con due porte. Il successo di questi due modelli testimonia che siamo di fronte a un gruppo in grado di dare una traiettoria ben definita al proprio brand e poi perseguirla con costanza. BMW e Mercedes sono due brand che restano ai vertici della classifica. Mercedes ha rinnovato completamente la propria identità dalpunto di vista di prodotto: la nuova Classe A va verso qualcosa che, come il resto della gamma, è molto più dinamico e forse recupera quello che è il DNA competitivo di questo brand.


Per ciò che riguarda BMW, è molto interessante quello che sta accadendo con il programma “i”, quindi con la ricerca di non essere solo una azienda automobilistica, ma un gruppo che investe nella mobilità in senso più ampio. Quello che stanno facendo, per esempio, con il Guggenheim, il BMW Lab, va in questa direzione. Di nuovo, siamo di fronte a un brand che riesce a mantenere le proprie posizioni sul business di origine, ma che si sta schiudendo verso un futuro che potrebbe essere completamente diverso in termini di tecnologia e anche di offerta.


Le aziende italiane: come potrebbero migliorare le proprie performance di brand?

Il problema che affligge i brand italiani che non sono in classifica, è tipicamente e tendenzialmente (con dovute eccezioni) di massa critica e di dimensione. Abbiamo brand ecccellenti praticamente in tutti i settori, che però fanno più fatica ad imporsi su scala globale, viste le dimensioni dei brand presenti nella classifica. Le motivazioni sono fondamente tre. La prima è molto tecnica ed è lo scarso ricorso al mercato dei capitali.Quest’anno abbiamo visto le IPO di aziende come Cruciani, azienda molto piccola ma con un brand che pensa in grande.


E poi Ferragamo e prima ancora Prada. Questo è molto incoraggiante, ma stiamo parlando di tre casi. In realtà, il mercato dei capitali italiano è ancora molto ristretto. Il secondo fattore è quello di una scarsa maturazione del capitalismo familiare, che deve esistere ed è un patrimonio del Paese. Ma spesso c’è scarso distacco tra proprietà e management, che è un qualcosa che in altri Paesi, in altri mercati e culture è già stato superato. Il mancato riconoscimento di un ruolo diverso tra la proprietà – che spesso è familare e talvolta deve esserlo – e il management, credo che rappresenti molto spesso un freno per alcune delle nostre eccellenze. Il terzo punto è la capacità di fare sistema. So che si tratta di uno sterotipo. Ma se noi vediamo brand come Brioni o Bulgari, che per godere dei benefici delle sinergie di un gruppo più ampio, sono finiti in mani straniere – per non citare Gucci stessa qualche anno fa – ci rendiamo conto che se non siamo in grado in Italia di creare dei gruppi che siano in grado di lavorare sui brand sfruttando delle sinergie e cercando di acquisire la massa critica, evidentemente siamo di fronte a un problema.


Quindi, la scarsità di brand italiani è sostanzialmente in fatto di dimensioni dietro cui c’è molto altro. Aggiungerei l’assenza dell’Italia in alcuni dei settori in cui oggi si fanno i giochi. Uno su tutti, la tecnologia. Questi sono i settori in cui si generano sinergie, si fa diversificazione, ricerca e sviluppo e dove si creano indotti.


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