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Punto e a capo. Il giornalismo digitale al bivio della crisi

Il futuro del giornalismo non è roseo, nemmeno quello digitale

I dati dicono sempre molte cose. La diffusione dei giornali in Italia segna un calo costante, da parecchi anni e questo trend mette a rischio il lavoro giornalistico, da una parte, ma anche l'informazione in generale dall'altra.
Non è che lo scenario dell'online sia particolarmente interessante, anzi, anche qui si iniziano a vedere tagli consistenti del personale nelle redazioni.
Non parlo tanto dello scenario italiano, poco interessante a prescindere, ma del trend dei giornali online internazionali di maggior successo.
E' di questi giorni l'annuncio da parte di Jonah Peretti, patron di BuzzFeed, di voler tagliare il personale del 15%. L'HuffingtonPost e Yahoo! dovrebbero assestarsi sotto il 10% e molti altri hanno tagliato in maniera consistente i lavoratori del settore, non solo i giornalisti.
Esistono studi che parlano, in un momento di massima diffusione delle informazione in qualsiasi modo, di una riduzione totale del lavoro nell'editoria del 50% rispetto a 10 anni fa. Qualcuno si è spinto oltre.
Non ha molta importanza capire quanto sia la percentuale corretta, ma conta capirne i motivi e chiaramente sono due: monetizzazione delle copie vendute, da un lato, e qui inseriamo anche gli abbonamenti digitali, dall'altro le entrate pubblicitarie.
E' indiscutibile che i budget a disposizione dei centri media siano ad appannaggio di Google e Facebook, ma non basta, perché anche le piccole aziende possono investire con profitto sulle piattaforme nord americane.
Inoltre, la diffusione del programmatic, ossia la pubblicità che esce automaticamente sui siti e in linea teorica meglio targetizzata sull'utente, ha ridotto il personale addetto alla vendita degli spazi e di fatto diminuito il valore generabile.
Anche i video, di fatto, non stanno producendo i risultati sperati. Al di là delle operazioni di saccheggio effettuate dai giornali italiani, le produzioni faticano a trovare riscontri importanti se lo scopo è la pubblicità "automatica", soprattutto perché se si aumenta la durata aumentano i costi, ma soprattutto la competizione con i grandi nomi delle produzioni televisive.
Il brandend content o la vendita di servizi di notizie a grandi marche sembrano le uniche forme di reddito che funzionano, almeno guardando quanto sta accadendo a Vice, che vende ad HBO o ancora a BuzzFeed che vende a Walmart.
Anche Condé Nast, che è leader per alcuni segmenti, passerà alla cessione dietro corrispettivo degli articoli online e, in Italia ha già ridimensionato Wired, punterà sempre più sugli eventi.
Per ora, tutti i sistemi che pensavano di portare l'editoria a un livello di distribuzione superiore, come è accaduto per Netflix o Spotify, sono tutti inesorabilmente falliti. Si registra qualche successo di paywall, ossia di abbonamento a servizi ma la concorrenza è sempre rappresentata dai social. Anche Apple si sta arrendendo e ridimensionando il progetto Texture, Google si trova a dover affrontare la normativa europea sul copyright e si interroga se mantenere il servizio Google News attivo, nonché la concorrenza di blogger, newletter, podcaster e youtuber mette in seria difficoltà i business model anche più moderni.
Solo i giganti restano, o coloro che hanno uno zoccolo duro, ma la storia di questi anni ci ha insegnato che l'attenzione degli utenti è catalizzata da Google e Facebook, sono loro che determinano cosa funziona e cosa no per un semplice motivo: il tempo speso online sulle loro piattaforme. Hanno catalizzato l'attenzione e di fatto creato un mercato della diffusione delle notizie, ma al tempo stesso regolano anche il traffico.
Un problema per il settore che ancora non si è trasformato in opportunità per nessuno. E il tutto a prescindere dal problema dei problemi: le fake news.
 


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