BusinessCommunity.it

03/02/2016

cover

Uva (ADP): l'HR manager deve essere l'abilitatore al cambiamento nelle aziende

Decentralizzazione, disintermediazione e accelerazione al cambiamento sono i fattori chiave di Risorse Umane per ogni organizzazione che intenda rispondere efficacemente alle sfide di mercato. E il work-life balance diventa sempre più importante

Partiamo da un dato preciso: l'HR manager ha la responsabilità di gestione del costo più importante che l'azienda ha nel suo bilancio, il personale. E questa figura sta cambiando ruolo e pelle nelle organizzazioni, diventando il vero "change enabler," grazie alle sue competenze. Ne abbiamo parlato con Nicola Uva, Strategy & Marketing Director di ADP Italia.

Quali sono i nuovi trend HR e le nuove modalità di lavoro in azienda?

Riguardo ai trend HR ve ne sono alcuni in qualche modo abbastanza definiti che continuano ad essere in atto. Sostanzialmente sono la decentralizzazione e la disintermediazione. Ovvero, il coinvolgimento di dipendenti e manager nei processi che prima erano gestiti centralmente all'interno del dipartimento HR. Molte aziende stanno andando in questa direzione. Oltre ai due citati, il terzo trend è sicuramente l'accelerazione al cambiamento. Quindi trovare strumenti e modalità per facilitare l'accettazione del cambiamento da parte delle persone.
Come metodologie e strumenti, per una maggiore decentralizzazione e disintermediazione l'uso di applicazioni mobile è diventato fondamentale.

Tutti i sistemi di supporto ai processi devono essere accessibili attraverso dispositivi mobili, da qualsiasi persona e in qualsiasi luogo o momento. Tra i nostri clienti vi sono aziende con un elevato numero di venditori. A questi non viene più dato in dotazione un Pc portatile bensì un tablet con cui fanno praticamente tutto, compreso il collegamento con le funzioni HR.
In aggiunta al mobile vi sono funzionalità di tipo social all'interno dei sistemi formativi, sia nella parte organizzativa (blog, chat, riunioni virtuali ecc.), sia in quella valutativa che ne sfruttano le metodiche.
A mio giudizio, Amazon è l'azienda che è riuscita ad interpretare meglio il ruolo dei social all'interno delle politiche HR, e di questo ne beneficiano tutti i consumatori. Quando ci relazioniamo con Amazon sappiamo di avere a che fare con un'azienda che si prende cura di noi. Il nostro interlocutore, un dipendente, risponde al telefono e si fa carico del problema. Se pensiamo a questo come operatore del mondo HR dobbiamo chiederci cosa ha fatto Amazon per far si che quell'operatore sia così gentile, ci richiami e risolva il nostro problema. E cosa non hanno fatto - per esempio - gli operatori telefonici italiani (ognuno di noi ne ha in mente uno) perchè il loro operatore non risponde, è scostante, non ci risolve il problema e ci rimbalza.



Si parla tanto di digital transformation. Quanto conta nell'evoluzione delle HR?

Su questo voglio essere fuori dal coro. Non è vero che senza il digitale in azienda non si può far nulla. Tutto passa dalla trasformazione dei processi e dall'individuazione dei processi corretti. Poi, la digitalizzazione accelera e supporta, ma è uno strumento non il fine. Molte aziende interpretano il cambiamento alla luce della digitalizzazione. Pensano cioè che introducendo strumenti digitali abbiano introdotto il cambiamento. Non è così perchè non è cambiato nulla.
Riporto spesso un esempio che riguarda le banche. In generale, non solo in Italia, queste sono le aziende e che nella relazione con il cliente hanno avuto l'evoluzione digitale più rapida. Qualsiasi conto corrente bancario oggi è superevoluto, nessuno di noi ha più bisogno di andare in banca poichè attraverso il suo portale digitale può fare moltissime cose, anche da mobile. Confronto ad aziende di altri mercati hanno avuto una fortissima evoluzione. Però le banche sono allo stesso tempo le aziende più vecchie dal punto di vista proprio dei processi interni che posso trovare.

Basta andare fisicamente in una filiale e sembra di tornare indietro di trent'anni.
Questo è un esempio per dire che non è vero che adottando il digitale l'azienda cambia. Cambia se cambiano le persone. Il digitale è solo un elemento di trasformazione che deve permeare tutta l'azienda.

Da una vostra ricerca emerge che fra non molti anni per la prima volta si ritroveranno a convivere e a lavorare nella stessa azienda ben 5 generazioni diverse. Cosa comporta?

Si tratta di una ricerca che abbiamo condotto in Europa su un campione di circa 1000 aziende, un numero quindi significativo statisticamente, in cui abbiamo notato che convivono Baby Boomers con Millennials, fino ad arrivare alla generazione Z. Si stima che nel 2030 in una azienda potrebbero esserci cinque generazioni contemporaneamente presenti, sia per effetto dell'allungamento dell'aspettativa di vita e dell'età di pensionamento, sia perchè i più giovani entreranno nel mondo del lavoro appena concluso il ciclo di studi.
Già adesso nelle aziende convivono tre generazioni. I Millennials di cui tanto si parla sono già al 40% della forza lavorativa.


Il problema di gestire generazioni così differenti è molto sentito: tutti siamo coscienti che l'accelerazione del cambiamento sia fortissima. Chi ha figli o nipoti sa bene come vi sia un modo diverso di interpretare la conoscenza, le relazioni e quindi anche il lavoro.
Facciamo un semplice esempio per meglio comprendere la complessità della convivenza. L'approccio all'apprendimento di un teenager oggi avviene su esempio: cercano dei video che ripropongono modi di fare o altro e in questo modo apprendono. Non sono abituati a leggere un testo, a concentrarsi su di esso e comprenderlo. Cercano delle formule più rapide e immediate. Immaginiamo questa forma di apprendimento all'interno di aziende che ancora sono strutturate per la formazione, i corsi, i manuali: un giovane che entrerà in questo mondo si troverà in difficoltà sulle modalità che gli vengono proposte. Si tratta di difficoltà che però vanno interpretate non solo in un senso - io azienda come faccio ad accogliere i nativi digitali -, ma anche come si riesca a mantenere produttivi e attivi i dipendenti più maturi. Sta quindi, per esempio, entrando nelle imprese il concetto di "reverse mentoring": se fino a qualche anno fa si pensava che il lavoratore con esperienza dovesse accompagnare quello più giovane trasferendogli della conoscenza e poi andare in pensione, oggi che questo non è più possibile, le aziende stanno sfruttando i nativi digitali per far crescere e fornire alle figure più mature quegli strumenti necessari per operare in questo contesto tecnologico.



Qui occorre fare un accenno ai nuovi modelli di valutazione che stanno prendendo piede all'interno dei dipartimenti di HR. Si sta passando da un sistema di valutazioni e modelli di incentivazione legati alle prestazioni individuali (gestione per obiettivi), ad un modello dove si associa alla valutazione dell'obiettivo anche l'efficacia del networking: ovvero si valuta l'efficacia nella relazione con gli altri. Questo perchè le performance personali dipendono anche dalla capacità di andare a distribuire le competenze e la conoscenza che si possiedono. A tutto ciò si affiancano strumenti nuovi che però fanno essenzialmente leva su questi due modelli.

Il "nuovo ruolo" delle risorse umane in azienda: non più un centro di costo ma partecipazione attiva allo sviluppo del business e alle decisioni strategiche?

Noi quotidianamente incontriamo chi ha la responsabilità della gestione delle HR. Rileviamo che queste persone hanno delle difficoltà nell'interpretazione del proprio ruolo. E' vero che da diversi anni si parla nei convegni di HR business partner, quindi di un'evoluzione del ruolo del direttore HR verso una sorta di "aiutante sul campo" per chi gestisce il business, ma poi la trasformazione reale è ancora complessa.


Se si va nelle aziende si nota che il peso reale che i direttori HR hanno è abbastanza limitato. Ovviamente parlo in generale. Consideriamo cosa si aspetta l'azienda e cosa deve fare un direttore HR. Io penso che quest'ultimo abbia competenze uniche all'interno dell'azienda. E' l'unica persona - o una delle poche - in grado di relazionarsi e gestire altre persone. Un manager che gestisce un'unità di vendita o produttiva, pur avendo sicuramente delle competenze gestionali specifiche della sua area, specialistiche di processo. La capacità di relazionarsi a tutto tondo è una prerogativa dell'HR manager, e questo occorre riconoscerlo. Nelle aziende, anche quelle di produzione industriale, la maggior parte dei costi (tra il 65 e l'80%) è per il personale. Quindi l'HR manager ha la responsabilità di gestione del costo più importante che l'azienda ha nel suo bilancio, e questo è un altro aspetto da considerare. A questi si aggiunge il come va interpretato questo ruolo. Piuttosto che vedersi Business partner, cioè cercare di capire il business dell'azienda sostituendosi al Business manager, occorre capire quali siano i comportamenti che le persone devono porre in essere rispetto alla strategia che l'azienda ha deciso di portare avanti.


Generalmente la risposta è molto semplice: le persone devono accelerare la capacità con la quale si adattano ai cambiamenti. Non si può definire e gestire completamente il comportamento di una persona, che non è una macchina. Occorre metterla però nelle condizioni di poter capire quali sono i cambiamenti che stanno avvenendo e adattare il proprio comportamento al cambiamento che avviene. Frequentemente nelle aziende c'è una resistenza al cambiamento mentre il mondo lo fa rapidamente. Quindi, a parer mio, l'obiettivo dell'HR manager deve esser quello - visto che è un conoscitore attento delle persone - di favorire il cambiamento, mettendo i dipendenti in grado di cambiare non vivendo lo stress personale che qualsiasi cambiamento comporta. Occorre essere di supporto in questo percorso. L'HR manager deve diventare un "change enabler", un driver o abilitatore del cambiamento.

E come può farlo?

Partiamo a livello individuale. Ognuno di noi cerca di capire il percorso richiesto quando ci viene chiesto di cambiare. Il cambiamento porta delle resistenze, perchè significa fare uno sforzo, e viene valutato dalle singole persone in funzione dei benefici individuali che porta.


Spiego meglio: l'azienda ha un mercato di riferimento; ogni cambiamento di questo viene intercettato e si riporta la necessità di cambiamento sulle persone all'interno.
Il primo sforzo che deve fare il direttore HR è cercare di personalizzare il messaggio, cioè aiutare le persone a capire a livello individuale il beneficio che questo cambiamento può portare. In caso contrario, il passaggio tra l'azienda che deve cambiare e la persona che capisce il cambiamento, ma non ne vede i benefici e aumenta la resistenza, diventa più complicato.
Un secondo elemento che può aiutare in questa politica riguarda l'introduzione di flessibilità. Nel momento di un cambiamento, da un modello A ad un modello B, se nel primo avevo raggiunto una certa "comfort zone", non voglio ritrovarmi poi bloccato. Quindi, introducendo elementi di flessibilità nel nuovo modello è possibile incentivare la persona ad accelerare il processo di accettazione del cambiamento.
Il terzo elemento riguarda la comunicazione, ovvero dare feedback continui rispetto all'efficacia del cambiamento e i suoi risultati, in modo tale che la persona possa vedere in breve tempo se il cambiamento sta portando dei vantaggi oppure no.


Il cambiamento è un ciclo ben identificato anche a livello psicologico: c'è una fase di resistenza, seguita da una di accettazione, e successivamente lo si fa proprio. Occorre diminuire la fase di resistenza.
E' una sorta di allenamento. Se non si cambia per vent'anni, non si può pretendere di cambiare in 10 minuti. Quindi, la prima volta sarà più complicato ma poi, piano piano, ci si abitua ai cambiamenti. Il percorso è sempre lo stesso: ci sarà sempre il momento di resistenza, ma ogni volta sarà più breve, perchè mentalmente già si pensa agli step successivi.

Nell'ottica dell'accettazione del cambiamento, quanto può essere utile la ricerca del work-life balance in azienda?

Il work-life balance è un contenitore in cui si possono inserire moltissimi strumenti. C'è un forte elemento di personalizzazione, poichè il bilanciamento vita-lavoro è diverso per ogni soggetto, per ogni stadio di vita e cambia nel tempo. Si tratta di una leva fondamentale per il cambiamento. In Italia ci sono situazioni a macchia di leopardo. Ci sono molti esperimenti e tante aziende stanno lavorando, per esempio, sullo smart working, in un'ottica di flessibilità sul luogo di lavoro (tipo telelavoro); in alcuni casi anche sugli orari.


Sempre più spesso sui media si legge di un'azienda che lascia ai dipendenti la possibilità di lavorare da casa un giorno alla settimana. Oppure, nel periodo dell'EXPO a Milano, alcune aziende collocate vicino alla manifestazione avevano dato ai dipendenti la possibilità di scegliere un'altra sede di lavoro. Al momento quindi i principali esperimenti riguardano la flessibilità, ma c'è qualcuno che si sta muovendo anche in una logica di welfare.
Rientra sempre nel work-life balance, ma si tratta di fornire ai dipendenti dei benefici in natura legati ai loro bisogni quotidiani. Parliamo di baby sitter o l'asilo, i libri di testo scolastici o altro. Questo viene erogato attraverso degli incentivi fiscali che garantiscono un beneficio reale più alto rispetto al costo che l'azienda sostiene, e anche un bilanciamento migliore per il dipendente, che se dovesse acquistare da sé quei beni o servizi spenderebbe molto di più. Sono questi gli esperimenti in corso, e devo dire che principalmente le aziende medio-grandi, hanno qualcosa all'interno della loro politica. C'è una forte attesa rispetto alle evoluzioni normative: la legislazione su questi temi è vecchia di 10 anni.


Sembra che nel Jobs Act e in qualche altra novità il governo voglia introdurre voglia introdurre degli elementi più moderni a favore di queste politiche, sia di smart working sia di welfare.

E' quindi un fattore importante...

Fondamentale. Nella nostra ricerca abbiamo un capitolo dedicato allo stress dei dipendenti. Circa il 90% afferma di aver passato almeno un momento di stress all'interno della propria relazione lavorativa, e circa in media tra il 40 e il 50% dichiara di sentirsi perennemente in una fase di stress. Una delle prime motivazioni è la mancanza di flessibilità, cioè vivere in un contesto lavorativo molto rigido, con modelli e processi ripetitivi, che non consentono di avere la flessibilità che in certi momenti le persone richiederebbero. Il work-life balance è proprio la risposta a questa situazione.

Social network come strumento HR?

Ci sono stati dei grandi cambiamenti. In pochissimi anni le aziende hanno fatto dei passi avanti proprio nell'interpretazione dei social network e nella relazione tra azione tra azienda e social network stessi.


Ricordo tre anni fa, ad un convegno con direttori HR di alcune banche italiane di medie dimensioni, e alla domanda "come vi siete posti nei confronti dei social network" la risposta è stata che ne avevano inibito l'accesso ai dipendenti. Una forma di chiusura verso un qualcosa con cui i dipendenti perdevano tempo e abbassava la produttività. E a domanda specifica sulla efficacia della chiusura la risposta era stata "no", poichè tutti hanno uno smartphone. Da questo atteggiamento difensivo si è passati oggi prima all'eccettazione (sono visti anche come uno strumento di apprendimento per le persone), alla scoperta di come nei paradigmi dei social network ci siano delle forme da copiare. Proprio per la connettività tra le persone.
Faccio un esempio. Si parla di organizzazioni liquide: la classica gerarchia all'interno di un'azienda è sempre meno utilizzata. Rappresenta innanzitutto un'azienda in modo statico e non descrive le vere relazioni che vi sono all'interno, con il relativo peso e valore delle persone. Molte aziende stanno introducendo concetti organizzativi mediati o copiati dai social network. Siamo al concetto di "gruppo" dei vari social LinkedIn, WhatsApp o Facebook: un certo numero di persone si autodefinisce "gruppo" perchè è vicino a determinate caratteristiche, per conoscenza, per affinità, lavora insieme, scambia esperienze e know how, e poi può scomparire quando non c'è più motivo di esistere.


Pensiamo a questo modello portato in un'azienda, opportunamente guidato, dove in qualche modo - piuttosto che aspettare una variazione organizzativa, creare un team che deve affrontare un progetto ecc. - si affrontano alcune sfide riducendo tempi e problematiche. In questo modo le persone possono auto-organizzarsi e lavorare in team attraverso questi strumenti.
Un altro esempio di come i social media vengono copiati dalle aziende riguarda il mondo delle valutazioni dei dipendenti. Si tratta di associare sistemi di valutazione classici a quelli di tipo social, attraverso qualcosa come i "Like": il network delle persone che collaborano o che hanno a che fare con una determinata persona può dare un giudizio rispetto alla relazione che questa persona ha sviluppato con i colleghi. Questo misura in maniera molto forte l'efficacia del networking: se io so di essere misurato in funzione della modalità con la quale mi pongo con tutto il mondo con il quale collaboro (colleghi, clienti ecc.), evidentemente starò più attento. Questo è un vettore di definizione del comportamento molto forte.  


ARGOMENTI: marketing - retail - ecommerce - intelligenza artificiale - AI - IA - digital transformation - pmi - high yield - bitcoin - bond - startup - pagamenti - formazione - internazionalizzazione - hr - m&a - smartworking - security - immobiliare - obbligazioni - commodity - petrolio - brexit - manifatturiero - sport business - sponsor - lavoro - dipendenti - benefit - innovazione - b-corp - supply chain - export - - punto e a capo -

> Vai al sommario < - > Guarda tutti gli arretrati < - > Leggi le ultime news <

Copyright © 2009-2024 BusinessCommunity.it.
Reg. Trib. Milano n. 431 del 19/7/97
Tutti i Diritti Riservati. P.I 10498360154
Politica della Privacy e cookie

BusinessCommunity.it - Supplemento a G.C. e t. - Reg. Trib. Milano n. 431 del 19/7/97
Dir. Responsabile Gigi Beltrame - Dir. Editoriale Claudio Gandolfo


Copertina BusinessCommunity.it