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26/11/2025

EDITORIALE


Quando la tassa sui ricchi impoverisce le casse dello Stato

L'esperienza norvegese del 2022 offre un caso di studio illuminante su come le politiche fiscali (trovate lo studio qui) apparentemente progressive possano produrre effetti controintuitivi e dannosi per l'economia nazionale. Quando il governo di Oslo ha aumentato l'imposta patrimoniale dallo 0,85% all'1,1% per i patrimoni superiori a 1,7 milioni di euro, probabilmente si aspettava maggiori entrate. La realtà si è rivelata ben diversa.
I numeri parlano chiaro: un incremento di appena 0,25 punti percentuali ha fatto decuplicare il tasso di esilio fiscale tra i contribuenti più facoltosi, passando dallo 0,2% al 2% annuo. Non si tratta di un raddoppio, ma di una moltiplicazione per dieci. Un risultato che dovrebbe far riflettere chiunque consideri la tassazione dei patrimoni una soluzione semplice alle necessità di bilancio.


Un termine di paragone lo potremo fare, tra qualche tempo, con la Spagna e "Impuesto sobre el Patrimonio", mentre in Francia viene spesso annunciata (con problemi enormi perché in sostanza 20 famiglie pagherebbero il 50% del gettito fiscale) ma sempre ritardata.
La questione fondamentale è che i grandi patrimoni, a differenza dei redditi da lavoro dipendente, sono estremamente mobili nel mondo globalizzato contemporaneo. I super-ricchi dispongono di consulenti fiscali, possibilità di trasferimento e alternative concrete. Quando il carico fiscale supera una determinata soglia psicologica, la scelta di trasferirsi all'estero diventa economicamente razionale, anche considerando i costi emotivi e logistici del trasferimento.
La lezione norvegese dimostra che esiste una soglia critica oltre la quale l'aumento della pressione fiscale produce effetti paradossali. Invece di incrementare le entrate, lo Stato si ritrova con una base imponibile ridotta e potenziali perdite nette.

Questi contribuenti non solo versavano l'imposta patrimoniale, ma pagavano anche imposte sui redditi, contribuivano all'economia locale con consumi e investimenti, e spesso sostenevano attività imprenditoriali che generavano occupazione.
L'esilio fiscale non è solo una questione di entrate immediate. Quando un imprenditore trasferisce la propria residenza fiscale, spesso sposta anche parte delle proprie attività economiche. Questo significa meno investimenti, meno posti di lavoro, meno innovazione nel paese di origine. Un effetto moltiplicatore negativo che supera di gran lunga il mancato incasso dell'imposta patrimoniale.

Tutto questo non significa che i patrimoni non debbano essere tassati o che i ricchi non debbano contribuire equamente al benessere collettivo.

Significa però che le politiche fiscali devono essere calibrate con estrema attenzione, considerando non solo gli obiettivi di giustizia sociale, ma anche le conseguenze economiche concrete.


La curva di Laffer, principio economico secondo cui oltre un certo livello di tassazione le entrate diminuiscono anziché aumentare, trova nel caso norvegese una conferma empirica impressionante. I governi che vogliono davvero aumentare le entrate dai contribuenti più facoltosi devono trovare il delicato equilibrio tra equità fiscale e competitività internazionale.
L'esperienza della Norvegia insegna che nella definizione delle politiche fiscali il pragmatismo deve prevalere sull'ideologia. Le buone intenzioni non bastano: servono analisi accurate degli effetti comportamentali e una visione d'insieme che consideri la mobilità del capitale nel XXI secolo.




Gigi Beltrame


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