MoU con la Cina: la solita asimmetria dei nostri "alleati"
Dopo averci depredato oggi ci dicono che non dobbiamo fare affari col Dragone: i nostri asset li vogliono loro. Ma Germania e Francia sono anni che hanno rapporti di business con Pechino
Chiariamo subito una cosa: sul fatto di avere o non avere un Memorandum of Understanding (MoU) non siamo né favorevoli né pregiudizialmente contrari. Gli accordi commerciali tra stati si fanno da sempre e, si spera, che chi negozi per l'Italia faccia il bene del suo popolo. Cosa non scontata viste le esperienze recenti e passate.
Detto questo, ci fa sorridere il fuoco di sbarramento mediatico sulla possibile firma di un MoU tra Italia e Cina.

Già, perché all'estero chi strepita maggiormente sono i Paesi che un MoU l'hanno firmato da tempo. Giusto per dare un'idea, negli anni numerose volte la cancelliera Merkel si è recata in visita a Pechino con al seguito nutrite delegazioni di imprenditori. E tutte le volte sono tornate a casa con un cospicuo numero di contratti che coprivano quasi ogni settore. La stessa cosa si può dire della Francia, attivi in Cina da sempre.
Peraltro, è ironico pensare che proprio i due Paesi che maggiormente hanno fatto shopping delle nostre aziende, dei nostri campioni nazionali, pretendano oggi che l'Italia non possa essere terra di investimenti esteri da parte della Cina. Forse vorrebbero per sé anche le ultime briciole, visto che dal governo ipereuropeo di Monti ad oggi abbiamo perso oltre il 25% del patrimonio industriale. Ovviamente, la reciprocità praticamente non esiste, come ben testimonia la vicenda Fincantieri e l'ignavia delle istituzioni europee.
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